Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

E se Sollecito, Amanda e i Kercher si fossero incontrati attorno un tavolo per trovare un accordo condiviso?

di Redazione

Il titolo di questo articolo , certamente provocatorio, vuole mettere in luce una riflessione sull’opportunità di risolvere conflitti , anche gravi, attraverso percorsi riparativi che possano raggiungere risultati maggiormente positivi piuttosto che la sola  applicazione della legge penale per non parlare della possibilità d evitare il sovraffollamento carcerario.

 

Di Daniela Mainenti 

Detto in estrema sintesi, la mediazione reo-vittima (Victim-Offender Mediation), istituto cardine di tutto l’impianto della giustizia ripartiva (Restorative Justice), è un “ processo, il più delle volte formale, con il quale un terzo neutro tenta, mediante scambi fra le parti, di permettere loro di confrontare i propri punti di vista e di cercare con il suo aiuto una soluzione al conflitto che le oppone”. La mediazione conferisce, quindi, ai partecipanti poteri di  decisionalità nella gestione del conflitto nascente dal reato, aiutando le stesse parti a collaborare per la  ricerca di una soluzione mutuamente vantaggiosa. Il vero elemento di novità dell’approccio  mediativo è quello di non considerare il reo come colpevole di un reato compiuto ai danni della  vittima, ma in un’ottica di relazione di cui il reo e la vittima fanno parte.

Viene, quindi, valorizzato l’aspetto relazionale del conflitto con l’obbiettivo di affrontarlo, attraverso l’utilizzo di strumenti che consentono al reo e alla vittima di gestire direttamente la controversia in questione.

È bene specificare che in Italia, la mediazione penale ha trovato un suo campo di applicazione nell’ambito della giustizia minorile e successivamente con l’istituzione del giudice di pace.

Allora il primo interrogativo che ci poniamo e che lasciamo irrisolto è “Qual è il confine tra il modus operandi della mediazione e il quadro giuridico entro il quale si colloca?”

Sfortunatamente non si assiste ancora, nel nostro paese,   a un valido impulso di questo istituto.

L’auspicio è che la mediazione penale possa andare incontro ad un promettente e ulteriore sviluppo,  diventando così una tecnica sempre più consolidata ed efficace, ma perché questo avvenga, è utile, forse, riflettere sugli aspetti relativi alle difficoltà normative, procedurali ed organizzative che le  pratiche di mediazione incontrano. Va da sé la necessità di mettere in campo ulteriori studi che  vadano in questa direzione e che consentano, magari, di esplorare meglio i risultati delle esperienze  di mediazione italiane in relazione a quelle sviluppate in altre nazioni europee.

Per parlare di mediazione penale occorre innanzitutto specificare come  tale fenomeno trovi una sua collocazione all’interno del paradigma di “giustizia riparativa” che, sviluppatosi negli Stati Uniti intorno agli anni ‘50-‘60, si contrappone al  modello di “giustizia retributiva”.

Più precisamente nella giustizia retributiva “la pena deve  apparire proporzionale all’intensità della colpa e tendente a una funzione preventiva dalla  commissione di reati e di protezione della società”;  nella giustizia  riparativa, invece, l’obiettivo principale è quello di rimuovere il danno e di attenuare la sofferenza  che l’azione delittuosa provoca in varia misura alle vittime. In tal senso, la  giustizia riparativa si propone di affrontare gli effetti che derivano dalla commissione di un reato,  includendo la riparazione materiale del danno, l’attenzione ai bisogni emotivi della vittima, la  gestione dei conflitti fra vittima e reo e, a livello più ampio, tra le rispettive famiglie e comunità di  appartenenza .

È evidente che se il modello retributivo privilegia l’elemento punitivo,  quello riparativo focalizza l’attenzione sulla relazione tra le parti e la ricostruzione della stessa. Ciò  può essere reso possibile tramite un intervento di mediazione; d’altra parte la stessa etimologia del  termine “mediare”, aprire nel mezzo, rimanda alla possibilità che le due parti in conflitto possano  riallacciare la comunicazione relazionale interrotta dal conflitto stesso .

I partecipanti, quindi, con l’ausilio di  un mediatore, sono aiutati a comprendere l’origine del conflitto, a confrontare i propri punti di vista, e a trovare nuove soluzioni sottoforma di riparazione “simbolica” prima ancora che “materiale”. La gestione dei conflitti promossa dalle pratiche di mediazione rappresenta una  grande novità che conferisce agli stessi protagonisti potere e responsabilità di assumere decisioni in  ordine allo scontro che li oppone. Si delinea quindi un modello di giustizia che predilige soluzioni  per così dire “interne” in cui alle parti viene restituita la potestà di governare la controversia, sia  pure con l’aiuto di un mediatore, al fine di favorire forme di partecipazione e di  responsabilizzazione diverse rispetto a quelle tradizionali, basate principalmente sulla delega nella  ricerca e nell’individuazione della soluzione .

La riparazione delle conseguenze del reato è, pertanto,  affidata alla libera determinazione delle parti che, con l’ausilio del mediatore, sono indotte a  collaborare per trovare una soluzione mutuamente vantaggiosa.

Tra i benefici per il reo si indica  soprattutto la possibilità di prendere coscienza delle conseguenze umane e materiali della propria  azione delittuosa ai danni della vittima, con prevedibili ripercussioni positive: la sua  responsabilizzazione ed il sottrarsi al processo di stigmatizzazione che il procedimento penale  comporta e alle eventuali conseguenze sanzionatorie riconnesse al suo epilogo.

 La vittima, invece,  ha la possibilità di comprendere il comportamento del reo e il suo movente, l’esperienza del suo pentimento e una riparazione soddisfacente .  Indubbiamente, ciò che caratterizza l’essenza della mediazione penale e della giustizia riparativa è  la riconciliazione tra la vittima e l’autore del reato e la riparazione diretta di eventuali danni subiti  dalle vittime.

Si tratta di due obiettivi di grande spessore e ciò può essere compreso soltanto se pensiamo al reo e alla vittima  come facenti parte di un unico sistema relazionale. Va da sé che il reato debba essere interpretato  nella sua dimensione relazionale, e che la mediazione penale debba agire sulle conseguenze del  reato stesso. In questa logica gli obiettivi principali della mediazione penale possono essere così riassunti:

il riconoscimento della vittima. La parte lesa deve gradualmente riuscire a sentirsi  protagonista della propria vita e delle proprie emozioni, superando in tal senso sentimenti di  vendetta e rancore che il reo ha suscitato in lei;

La riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale.

Oltre alla componente economica del danno, deve essere presa in considerazione anche la dimensione emozionale dell’offesa, che può innescare sentimenti di insicurezza e sfiducia;

 L’autoresponsabilizzazione del reo.

La responsabilità del reo deve essere intesa come un percorso che conduce i soggetti in conflitto a essere responsabili l’uno verso l’altro (reo vs vittima e viceversa); 

Il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione.

La comunità deve poter  svolgere sia il ruolo di destinatario delle politiche di riparazione, sia quello di attore sociale nel  percorso di “pacificazione” che muove dall’azione ripartiva del reo.

Sfortunatamente spesso sono stati  messi  in luce alcuni elementi di criticità. Infatti  l’attività di mediazione penale non è esente da diversi ordini di problematiche che possono portare a  dei risultati fallimentari.

Nello specifico si è visto come in alcuni casi la mediazione possa ridursi ad  un semplice negoziato di interessi, perdendo così di vista la dimensione conflittuale;  in altri casi,  invece, si è visto come la mediazione possa sfociare in una seduta di psicoterapia, dimostrandosi  inefficace nella gestione del conflitto, perché troppo complesso per essere risolto nell’ambito di un  incontro di mediazione.

La mediazione tra reo e vittima, quindi, risente gli schemi di interazione tra i partecipanti non di problematiche che ostacolano la sua  reale efficienza ed efficacia  in termini  applicativi. 

Questo fallimento è riconducibile al tipo di legame strutturale  tra la mediazione e il sistema giudiziario che pone la mediazione in una posizione di controllo e di  dipendenza rispetto alla legge, delegittimando così la sua autonomia e ostacolando il suo specifico modus operandi.

Sicuramente una maggiore autonomizzazione di tale procedimento consentirebbe di ottenere significativi risultati in termini di deflazione del carico giudiziario e del controllo numerico dei detenuti nel rispetto delle direttive CEDU, senza la necessità di dover ricorrere periodicamente  a indefiniti, e indefinibili, provvedimenti svuota carceri.

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