Leggendo il quadro di Enzo Nucci, “ Finestra sul Mediterraneo ”, posto nella ‘Sala delle Armi’ del palermitano Palazzo Steri, una riflessione sulla necessità d’un atto contemplativo
di Aldo Gerbino
Contemplare, rimemorare
La dimensione contemplativa che si attua nell’esercizio della parola, come nella condensazione oggettiva operata in pittura, in scultura e in tutte le forme postmoderne applicabili alle arti figurative e visuali, svolge parimenti il proprio dominio sia sul versante del silenzio sia su quello della sonorità prodotta dall’azione e così in ogni possibile fabrilità operativa. Un silenzio, comunque, che è sempre germoglio di un flettersi interiore, fino a quel sospingerci sulla pedana di un momentaneo arresto. Una ‘pausa’ attiva vista come l’innata volontà di superare le barriere, spesso coercitive, asfittiche, imposte dalle molteplici e contraddittorie formule del tempo presente e che, inequivocabilmente, incidono, trasformano i termini di quella visione consapevole del mondo e delle sue cose, dell’uomo, dei suoi problemi, delle tangenze operative sulle riflessioni che il procedere artistico, l’azione o l’esigenza creativa impongono. Vera e propria opera di sedimentazione, di raccoglimento, la ‘pausa’ s’installa sul condotto sperimentale in un dinamizzare la sensibilità, nel veicolare sensazioni e aspetti anche enormemente distanti tra loro per tentarne un possibile collegamento, per cercare di comprendere, con una maggiore consistenza loica, la dimensione in cui realizzare le proprie intime pulsioni e dar loro un volto, una giustificazione esistenziale. Certo, la velocità risveglia alcune tensioni tenute nascoste nella coltre dell’inconscio; d’altronde è la stessa velocità a intorpidirle, a favorire un’anestesia con quell’aggredire il continuum armonico dell’umano divenire, intervenendo sullo stesso linguaggio da usare e che, a volte, sembra poco confacente con la realtà dei fatti. Di quale linguaggio far uso (in senso letterario o col suffragio delle arti figurative, astratte, visive )?
D’altronde possiamo non accogliere il respiro di un lexicon tramandatoci dalla nostra linfa storico-sociale, ospitando acriticamente le spesso gratuite aggressioni iconoclaste esercitate sulla pittura, sulla parola? Quale linguaggio può, per altro, non essere che compatibile con la propria struttura psichica? con l’alveo colmo di memoria della propria cultura?
Non sappiamo se sia stato ampiamente decrittato l’assunto di Reinhart Koselleck per cui il vasto collage linguistico già codificato, – quell’ampio reticolo che noi preferiamo intendere quale vivo monumento biologico e intellettuale, epifenomeno della secrezione d’idee e quindi di fatti, e di materiali artistici, – non sia, per il filosofo tedesco, sufficiente a consegnare definizione identitaria nel tempo delle civiltà (e nella crescita in esso). Se ciò in parte corrisponde al vero, soprattutto nei linguaggi istituzionali, è altrettanto vero che riconsegnare smalto alle parole dormienti (così alle icone obliate o al coinvolgente fluire aniconico), o alle parole impropriamente usurate dalla globalizzazione linguistica, sembra essere un’opportuna necessità per rivitalizzare, rimemorare e consegnare al proprio tempo le istanze germinative di un passato in cui inevitabilmente si radica e si nutre il nostro presente, così come le sue insite proiettive avances già indirizzate sul nostro dis/umano futuro.
Quest’incerta e velocissima ascensione – posta, nell’indifferenza del pianeta, tra le quotidiane e mortali fiamme divoranti le nostre familiari ‘finestre sul Mediterraneo’ – deve indurci a riflettere, a fronte d’ogni accelerazione tecnicista, sul nostro operare, sul nostro creare, ma soprattutto deve mettere a nudo l’effettiva capacità di saper leggere, saper vedere e ascoltare i sempre più numerosi sfocati sguardi che in ogni dove ci assediano. Sembra consolidarsi, sempre più, l’urgenza di una pausa contemplativa: un fermarsi per comprendere, per non aumentare, a dismisura, l’inevitabile precipitare delle macerie prodotte dall’esistenza.