La candidatura di Palermo a capitale europea della cultura per il 2019 ha più i connotati d’una fuga dalla realtà che quelli d’un progetto plausibile
di Salvo Ferlito*
In psichiatria si parlerebbe di “spostamento”. Ovvero di deviazione del “focus” dell’attenzione verso un bisogno o una pulsione meno pressanti, per la palese (e patologica) incapacità di fronteggiarne altri assai più significativi ed impellenti. Come definire, infatti, la proposta di candidare Palermo come capitale culturale europea del 2019, se non in termini di manovra di spostamento verso un obiettivo di minor urgenza, vista l’ormai cronica inattitudine di qualsivoglia giunta comunale ad affrontare e risolvere i problemi di base (per così dire strutturali) di cui soffre da sempre la città?
Che <<ci azzecca> (per usare una espressione tipica del più recente sodale politico del nostro sindaco) questa “sparata” propagandistica con un contesto urbano caratterizzato da permanenti carenze igieniche (leggi “munnizza”), eterni impedimenti nella viabilità o continui allagamenti al primo acquazzone d’una certa consistenza?
Certo – si obietterà – che Palermo è città di storia e tradizioni plrurimillenarie (circa tremila anni, partendo dalla sua fondazione cartaginese, ben di più, se si anticipa il conteggio all’epoca dei paleolitici graffiti dell’Addaura), e che basterebbe dare uno sguardo alle tante testimonianze storico-artistiche (o più semplicemente al nostro articolatissimo dialetto) per avere contezza delle innumerevoli e rilevanti stratificazioni culturali succedutesi nel tempo.
E tuttavia non basta essere depositari d’un consistente patrimonio (però spesso negletto e maltrattato e non di rado ignoto agli stessi palermitani) per poter considerare la nostra città un faro o un centro irradiatore di cultura. Palermo è infatti tendenzialmente codina e reazionaria (basta guardare alla politica), filoneista per moda, ma misoneista nella sostanza. Poco incline a sperimentazioni – soprattutto nelle arti visive – e fortemente abbarbicata su consolidate certezze (gli immarcescibili pittori dell’800, come confermano le recenti mostre su Catti e Leto), e soprattutto sorda e disattenta ad ogni impegnativa sollecitazione culturale.
Poche centinaia di visitatori alle mostre (praticamente quattro gatti su un milione di abitanti), sempre le stesse facce (almeno da un trentennio) ai concerti, poca affluenza ai cineforum (anche lì ben pochi giovani) testimoniano d’una situazione statica e stantia, che francamente non lascia molto ben sperare. E non saranno certo i poco auspicabili faraonismi orlandiani a invertire il corso degli eventi. E’ vero che mostre e installazioni come quelle di Fabre, Buren (con qualche riserva) e Boltanski (tutte allestite durante i precedenti mandati di Orlando) sono state decisamente rilevanti; ma è anche vero che sono state come simulacri nel deserto, non lasciando tracce residuali se non nella memoria degli addetti.
Per il 2019, se mai la candidatura andrà in porto, sarà meglio pensare a iniziative meno glamour (rivolte alla stampa nazionale o a quella estera) e piuttosto concentrarsi su progetti dagli esiti più proficui e duraturi. Coinvolgere tutti gli artisti palermitani (con particolare attenzione per i giovani) in un processo di riqualificazione estetica della città, trasformando il tessuto urbano (attraverso l’inserimento di murales, di sculture e installazioni, nonché mediante proiezioni di foto e di filmati su muri e pareti) in un grande museo d’arte contemporanea a cielo aperto, è l’unica opzione valida e perseguibile.
Maggior coinvolgimento intellettuale, costi bassi e contenuti, e soprattutto risultati permanenti.
*critico d’arte