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Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Francia, Europa: la crisi e la paura

L’avanzata delle destre in Europa e il successo della sinistra radicale in Francia sono il risultato di due nostalgie e di due utopie. Il ritorno allo Stato Nazione e il ritorno allo Stato sociale.

di Victor Matteucci

Charlotte Girard è una docente di diritto all’università di Parigi-Nanterre. Jacques Généreux, invece, è un economista docente a Sciences Po. Secondo una lettura superficiale, da gossip, ci sarebbero loro dietro l’affermazione del Fronte popolare in Francia, in particolare dietro l’affermazione della sinistra radicale, “France insoumise”.

Complessivamente, tra primo e secondo turno, il Nouveau Front Populaire si è affermato come prima forza dell’Assemblea Nazionale con 180 seggi, 49 in più della precedente legislatura; Ensemble ha ottenuto 159 seggi (86 in meno); il Rassemblement National e gli alleati 142 seggi (53 in più); i Républicains 39 seggi (25 in meno). Ci sono poi 27 deputati di destra che non fanno parte di nessun partito principale, 12 di sinistra, sei del centro e 12 di altri partiti.

Il programma, presentato in conferenza stampa il 14 giugno, era stato considerato dalla stampa particolarmente ambizioso e avanzato: si proponeva, tra gli altri punti, una forte progressività fiscale, il blocco dei prezzi sui beni di prima necessità, l’abrogazione della riforma pensionistica di Macron, l’aumento del salario minimo, l’ampliamento e il rafforzamento del settore pubblico, la risoluzione della crisi in Nuova Caledonia. Sulla politica estera viene raggiunto un compromesso tra LFI e Glucksmann circa l’impegno della Francia a raggiungere una pace giusta con la Russia, proseguendo con il sostegno all’Ucraina e, al contempo, viene affermato lo sforzo per ottenere un cessate il fuoco a Gaza, con il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Il Fronte, sostenuto dai più grandi sindacati del Paese, da parti della società civile e da diverse associazioni, raccoglie numerosi partiti, tra cui La France Insoumise, appunto, il Partito Socialista, il Partito Comunista e Les Écologistes.

La France insoumise (letteralmente “La Francia indomita”), LFI o FI, è un movimento politico francese di sinistra e sinistra radicale che fu lanciato il 10 febbraio 2016 per promuovere la candidatura di Jean-Luc Mélenchon alle elezioni presidenziali del 2017, con l’obiettivo di realizzare il programma “L’Avenir en Commun” (“Il Futuro in Comune”).

La France Insoumise nacque dalla volontà di creare un movimento partendo “dal basso”, in rottura totale con la logica dominante dei partiti politici gerarchizzati. Il movimento si ispira apertamente al suo omologo spagnolo Podemos, ma anche al movimento Revolución Ciudadana del presidente Rafael Correa in Ecuador e alla campagna di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico nel 2016.

Fondato il 10 febbraio 2016, il movimento organizzò un primo raduno sulla piazza Stalingrado a Parigi il 5 giugno 2016, al quale parteciparono oltre 10mila persone, ed un secondo il 28 agosto nei giardini dell’Observatoire di Tolosa.

Il programma “Un Futuro Comune” fu adottato durante una convenzione a Lille il 15 e 16 ottobre 2016, scritto da oltre 1000 persone, di cui più dei due terzi tirati a sorte tra gli aderenti del movimento

La campagna per le elezioni fu guidata da Manuel Bompard e Alexis Corbière, dirigenti del Partito di Sinistra in Francia, con il coordinamento della docente di diritto all’università di Parigi-Nanterre, Charlotte Girard, e dell’economista Jacques Généreux.

Charlotte Girard, Maîtresse de conférences en droit public, Université Paris Nanterre – Université Paris Lumières. Professoressa a contratto presso Dipartimento di Scienze Giuridiche — DSG.

Jacques Généreux  è un economista e politico franceseprofessore dell’Istituto di studi politici di Parigi, promotore del movimento La France Insoumise e vicino collaboratore di Jean-Luc Mélenchon. Nel 2016, assieme a Charlotte Girard, ha coordinato la redazione del programma del nuovo movimento La France Insoumise, che verrà pubblicato con il titolo “L’Avenir en Commun” in vista delle elezioni presidenziali e legislative

Dietro La France Insoumise

In realtà, alla base di questa recente affermazione politica della sinistra radicale, c’è molto di più di qualche intellettuale. C’è la banlieue e una lunga storia di fallimenti dell’integrazione sociale, ci sono i giovani tra i 18 e 26 anni senza prospettive di inclusione, ci sono gli scioperi e le proteste per i tagli delle garanzie sociali da parte delle politiche neoliberiste che hanno colpito le pensioni, c’è il dissesto della scuola e della sanità a causa dell’indebitamento dello Stato, c’è la fine del modello industriale e la crisi economica nel settore privato con la nascita di multinazionali che hanno delocalizzato la produzione in Paesi extraeuropei o che hanno esternalizzato e precarizzato il lavoro. Un segnale premonitore di questa situazione furono i circa 19 suicidi (ma furono in realtà molti di più), che quindici anni fa si registrarono tra i dipendenti di France Telecom (dal 2013, Orange) molti dei quali accompagnati da inequivocabili messaggi d’accusa nei confronti dell’azienda.

La crisi generale storica

Ma la crisi in Francia non è solo francese, queste derive del welfare e del lavoro riguardano tutti gli Stati occidentali. La crisi attuale non è una semplice crisi economica congiunturale. Siamo di fronte ad una crisi generale storica, come la chiamano gli economisti. La crisi economica attuale è, infatti, legata ai processi di globalizzazione dei mercati e, di conseguenza, alla crisi e alla necessaria ristrutturazione del vecchio assetto ottocentesco degli Stati nazione, alla loro progressiva marginalizzazione a causa della perdita di funzioni decisionali (politica estera, difesa, bilancio), di risorse e di sovranità; sovranità che è stata trasferita a livello internazionale per essere adeguata al mercato.

Quindi, la crisi, oltre che sociale ed economica, è di sistema e ha un carattere istituzionale.

Questa ridefinizione del mondo occidentale, da un sistema di stati nazionali che perdono peso, a un sistema multinazionale integrato a guida americana, è qualcosa che cancella identità locali e che spaventa le masse costrette a navigare in un mare aperto. Questa paura diffusa è, infatti, alla base, in tutti i paesi occidentali, della scarsa partecipazione al voto, della radicalizzazione della pubblica opinione e della polarizzazione dei risultati elettorali (la partecipazione eccezionale in Francia è stata ottenuta evocando il rischio di un regime autoritario).

Le conseguenze della crisi generale a livello locale

Lo slogan più ripetuto a Place de la Concordie (la piazza della Rivoluzione), non a caso, era quello della Rivoluzione francese: Libertè, Egalitè, Fraternitè. Il cedimento attuale della cornice dello Stato nazione, la crisi di questa sovranità nazionale condivisa, che era basata su criteri di uguaglianza e di pari diritti e doveri, costringe tutti, dovunque siano, a dover fare i conti con una condizione di insicurezza diffusa, di disuguaglianze, di discriminazioni, di reciproca diffidenza e di crescente estraneità. Tantopiù, quando la convivenza è tra etnie, culture, generi e religioni diverse. In questa situazione di insicurezza diffusa, la paura dell’altro, che sia una donna, un musulmano, un africano, o semplicemente un proletario, è rimossa solo superficialmente con la soluzione temporanea e precaria dell’Apartheid, cioè di una convivenza in spazi contigui ma separati. Ma, una situazione del genere, da separati in casa, per prima cosa fa ritrarre la magnanimità della borghesia rispetto ai proletari, dei bianchi rispetto ai neri, dei maschi rispetto alle femmine, a cominciare dalla condivisione, dalle pari opportunità, dai comuni diritti e dall’ospitalità. La conseguenza di questa slavina, che gradualmente diventa frana sociale, è che chi è dominante per censo, etnia, genere, ritira le concessioni e assume comportamenti conservativi, di chiusura, di difesa, di rifiuto dell’altro, così come, il modello di segregazione francese sta dimostrando nelle banlue, ma come si evince in tutta Europa se consideriamo l’aumento dei femminicidi, dei morti per il lavoro di scarto dei più vulnerabili, del razzismo.

Non sono casuali, in questo senso, gli slogan delle destre da Trump (American first) alla Lega (Prima gli Italiani).

Ma, in realtà, il sogno segreto, l’idea della classe dominante, sarebbe quella di aumentare la sorveglianza e la sicurezza per chiudersi entro il comfort protetto delle mura medievali, di affidare il lavoro e i servizi alle macchine, gli investimenti al sistema finanziario e di lasciare fuori con mura e respingimenti, nelle periferie, nel sud, o nel deserto del nord Africa, gli altri che “Non sono persone, sono animali”  (D. Trump: “Gli immigrati in alcuni casi non sono persone secondo me. Ma non posso dirlo perché la sinistra radicale dice che è una cosa terribile da dire”- ANSA).  

Una situazione di nuovo medioevo

D’altra parte, anche la progressiva separazione tra servizi privati e di qualità per la società più abbiente e i servizi pubblici scadenti per i meno abbienti, è un riflesso chiaro di questa separazione sociale in atto, che contrae le aree privilegiate, con la conseguenza di una polarizzazione, di una divaricazione progressiva, tra aree di produzione e sviluppo e aree di risulta e smaltimento.

Anche questa divaricazione crescente tra esclusi e inclusi, contribuisce a produrre una diffidenza e una insicurezza diffusa, da cui una crescente domanda di protezione da parte della società garantita che ha tutto da perdere nei confronti di chi non ha più nulla da perdere. Secondo Bauman, che ha analizzato l’incremento dei sistemi di difesa interni all’occidente, questo fenomeno di irrigidimento sociale lo si può dedurre anche osservando “l’isolamento delle aree residenziali e degli spazi frequentati dal pubblico (che) è di fatto la prima causa della mixofobia. Le soluzioni disponibili creano il problema, invece di risolverlo: i costruttori di gated communities e di condominii strettamente sorvegliati e gli architetti degli spazi preclusi, creano, riproducono e intensificano il bisogno e, quindi, la domanda che invece sostengono di soddisfare. La paranoia mixofobica nutre bene sé stessa e agisce come una profezia che non ha bisogno di conferme. Se la segregazione viene offerta e intesa come una cura radicale per il pericolo rappresentato dagli stranieri la coabitazione con gli stranieri sarà sempre più difficile”( Z. Bauman “Fiducia e paura nella città” Mondadori 2005 pag.34).

Quindi, come molti studiosi hanno osservato, questa tendenza alla segregazione ha una duplice conseguenza, ovvero: è evidente che segrega gli esclusi e i disintegrati, ma anche gli inclusi e gli integrati.

In questa tensione latente, inoltre, si realizza una sintesi che consiste in una normalizzazione della tensione, dell’emergenza e (naturalmente) la possibilità di ricavare un business della paura da poter spendere in sicurezza (il mercato americano delle auto registra una percentuale del 45% di vendite di SUV) sulla base del bisogno di sicurezza e protezione e fortificazioni tant’è che:

Le trincee fortificate e i bunker destinati a separare e tenere lontani gli estranei, sbarrando loro l’accesso, stanno diventando rapidamente uno dei tratti più visibili delle città contemporanee” ( Z. Bauman, Vite di scarto, pag. 43)

Le città come nuovi feudi blindati e gli altri fuori le mura

Lo sviluppo dei modelli urbani e il rapporto città/periferia in Francia e in Europa offrono molti spunti per riflettere sul processo di segregazione, separazione sociale, arretramento e innalzamento delle misure di protezione, sorveglianza e difesa. Per esempio, i tempi di accesso o di uscita dalla città dei servizi di metropolitana, dei treni e bus che collegano il centro e le periferie sono indicati dai blocchi di accesso notturni e dal rallentamento festivo, favorendo, perciò, un transito in entrata ed in uscita prevalentemente destinato a finalità lavorative o di consumo. Ma, oltre alla pianificazione degli spostamenti con il criterio della necessità/utilità, vi sono anche strategie urbane molto eloquenti. L’obiettivo è di insediare complessi popolari sempre più popolosi in aree sempre più distanti dalla città (spesso si tratta di aree rurali che, con semplici varianti ai Piani Regolatori, sono trasformate in aree urbane).

La crescita a dismisura delle periferie riflette questo incessante consumo/occupazione del territorio. La creazione di nuove aree suburbane descrive chiaramente, da un lato, il bisogno delle città di attrazione dalle aree rurali o dai paesi extra europei per concentrare la domanda di consumi, dall’altro, l’esigenza di distanziare i poveri dai ricchi.

Una tale progressiva attrazione con distanziamento, che si ripete in tutte le città occidentali (ma era già attiva negli anni ’70 quando questa strategia era nota con la diffusione del modello di città satelliti) è percepita chiaramente dai subalterni come una costante tendenza che materializza e collega il doppio standard a cui sono sottoposti: induzione ai consumi ed esclusione dal lavoro con il conseguente confinamento del malcontento in aree-ghetto.

La rabbia dei più giovani

E fu proprio per protestare contro questo tipo di strategia da apartheid, imbevuto di razzismo, infatti, che tra la fine di ottobre e la metà di novembre del 2005, esplose una serie di violente sommosse che coinvolsero oltre cento città della Francia e, in particolare, l’area metropolitana di Parigi. Le rivolte erano scoppiate nel dipartimento della Seine-Saint – Denis, un dipartimento della regione francese dell’Île-de-France (uno dei tre dipartimenti che costituiscono l’area periferica di Parigi insieme a Hauts-de-Seine e Valle della Marna), in seguito alla morte di due adolescenti.   

Il 27 ottobre 2005 tre adolescenti tra i 15 e i 17 anni, credendo di essere inseguiti dalla polizia, si rifugiano in un trasformatore Edf (elecritricitè de France) a Clichy -Sous-Bois. Due di loro moriranno fulminati, un terzo risulterà gravemente ustionato. In seguito a questo evento drammatico, esplosero una serie di sommosse, a partire dalle citè, dai quartieri di edilizia sociale e, più precisamente, da quelli classificati come Zus (Zone urbaine sensible).

Riflettendo, in seguito, sulla numerosa presenza di giovanissimi tra i rivoltosi (una caratteristica del voto recente alla sinistra radicale), si comprese che, alla base, vi era la forte disoccupazione giovanile dei protagonisti. Questa improvvisa disoccupazione dilagante si era determinata a causa della soppressione degli emplois jeunes (lavori giovanili che, infatti, subito dopo vennero reintrodotti), ovvero di posti di lavoro riservati ai giovani fino a 25 anni; un provvedimento creato dal governo negli anni ’90. Si scoprì anche che le sommosse avevano coinvolto, oltre alle Zus (le zone urbane sensibili), in particolare le Zfu (zone franche urbaine).

Indagando meglio emerse un piano dell’Anru (2004-2008) che prevedeva la demolizione di 250.000 alloggi, la ristrutturazione di 400.000 abitazioni popolari e la riqualificazione di altri 400.000 immobili. Le zone urbane sensibili interessate dalle convenzioni erano circa 300.000 (il 16% delle Zus). Questo intervento mirava ad espandere l’area delle case Hlm (Habitation à loyer modèrè); per il 70% riferiti agli alloggi occupati e per il 10% ad alloggi non occupati (Rapporto dell’Onzus 2005, pag.17).

In breve, si trattava di uno sradicamento di massa di immigrati, molti dei quali, illegali e poveri estremi, per far posto ad abitazioni a basso costo e a famiglie con reddito medio basso, famiglie declassate, senza più la sostenibilità per abitare “dentro le mura” della città (“La rivolta delle periferie”, a cura di Lagrange e M. Oberti – Mondadori, pag. 140).

Quindi, il malcontento nascondeva una catena di arretramenti sociali e una latente situazione di conflitto tra nuovi espulsi da arretrare in periferia e intrusi da disperdere o da ricollocare in alloggi temporanei e ancora più distanti dalla città.

Dal 2005 ad anni più recenti, la situazione in Francia si è costantemente deteriorata.

Nel 2019 la protesta dei Gillet gialli infiammò di nuovo tutta la Francia con proteste che dilagarono anche in Italia e in Germania. Il pretesto che aveva dato inizio agli scontri era stato l’aumento delle imposte sui carburanti e dei prezzi del gasolio e della benzina che colpivano soprattutto quanti erano costretti quotidianamente ad entrare e ad uscire dalla città. Ma, in breve, la protesta si ampliò e, da parte dei manifestanti, fu definita una piattaforma di rivendicazioni che rappresentava una emblematica critica a tutto quello che sintetizza l’attuale capitalismo postmoderno.

  1. Aumento del salario minimo di 100€ per mese.
  2. Blocco delle tariffe blu per le bollette dell’elettricità e detassazione degli straordinari.
  3. Eliminazione del crescente fenomeno dei senzatetto, lotta alla povertà,  difesa ed estensione del SMIC (il salario minimo francese) a 1.300 euro netti.
  4. Indicizzazione all’inflazione dei salari, nonché delle pensioni e delle indennità (sul modello della  scala mobile italiana che fu eliminata negli anni ‘90).
  5. Protezione dell’industria francese: divieto delle delocalizzazioni. Protezione del settore industriale e del know-how.
  6. Fine del lavoro distaccato.
  7. Sicurezza del lavoro: limitazione del numero di contratti a tempo determinato per le grandi aziende e aumento dei CDI (contratti a tempo indeterminato).

La prima manifestazione era stata organizzata in contemporanea in 600 città francesi. Da quel momento c’era stato un sempre maggiore aumento del numero dei protestanti (i dati riferivano di 250.000), ma vi fu anche una escalation degli scontri con 15 morti, oltre 3.000 feriti e circa 5.000 arresti.

Ecco da dove nasce il programma di “France Insoumise”.

Le ultime parole famose: “Non faremo la fine degli italiani”

Solo un paio di anni dopo, nella primavera del 2023, la protesta sociale divampò di nuovo, sempre in Francia, questa volta, l’occasione fu la protesta contro la riforma del sistema pensionistico, al grido “Non faremo la fine degli italiani” (il riferimento era alla Riforma Fornero, Governo Monti). La protesta promosse quattordici giornate di cortei in 250 città francesi contro il governo e milioni di francesi contrari all’innalzamento di 2 anni dell’età pensionabile (da 62 a 64 – in Italia è ben più penalizzante). Fu tutto inutile, i francesi fecero la stessa fine degli italiani (con le debite proporzioni). La riforma delle pensioni fu approvata senza nemmeno un dibattito in parlamento.

La miccia della separazione etnica

Ma a fine giugno del 2023 le proteste francesi riesplosero ancora e, questa volta, ebbero il carattere di una vera e propria insurrezione popolare, con proteste, barricate, incendi, saccheggi e devastazioni che coinvolsero tutta la Francia per circa una settimana e che si propagarono anche in Svizzera (Losanna) e in Belgio (Bruxelles).

L’occasione, questa volta, fu fornita dall’uccisione a Nanterre di un diciasettenne (Nahel) reo di non essersi fermato al posto di blocco della polizia.

Dopo 4 giorni di vera e propria guerra civile che aveva costretto il Governo a dichiarare lo stato di emergenza, il coprifuoco in molte città e a convocare con urgenza il Consiglio di sicurezza, la protesta si era allargata alle grandi città. Scontri e violenze si erano verificati soprattutto a Parigi, Lione, Marsiglia, Lilla e Bordeaux.

Innumerevoli furono gli scontri con la polizia, saccheggi di negozi, automobili e cassonetti incendiati: oltre 1.300 le persone erano finite in commissariato, tra arrestati e fermati, di cui più di 400 solo a Parigi. Il bilancio da guerriglia urbana, secondo i dati diffusi dal Ministero degli Interni francese, citava 79 poliziotti feriti, 1350 auto incendiate, 234 palazzi incendiati o danneggiati, 31 commissariati di polizia devastati, 16 posti di polizia locale e 11 caserme della Gendarmeria presi d’assalto.

Furono schierati 45mila agenti. Dopo 5 giorni di protesta si contarono 2000  fermati, 719 persone  arrestate in tutto il paese (i minorenni erano un terzo degli arrestati). Solo in una notte i dati rivelarono che erano stati feriti 80 tra poliziotti e gendarmi, che 577 veicoli e 74 edifici erano stati dati alle fiamme, mentre, 871 erano stati gli incendi registrati su strade pubbliche.

La ragione di fondo di quella guerriglia urbana, al di là del motivo scatenante, era l’esclusione e la mancanza di prospettive e di futuro, soprattutto per i giovani immigrati di seconda e terza generazione, confinati in Banlue che ormai erano state trasformate in veri e propri campi di concentramento per prigionieri; prigionieri che erano sottoposti ad una continua repressione fisica e psicologica, come confermò il sociologo francese Michel Kokoreff:

La storia sociale delle rivolte si ripete. Dagli anni 70, tutte le rivolte urbane in Francia obbediscono allo stesso scenario. Un giovane vittima di razzismo muore a seguito di un’interazione violenta con un poliziotto. L’emozione collettiva porta alla rivolta. Le ‘marce bianche’ fanno appello alla calma, ma la rivolta continua per alcuni giorni alimentata dalla repressione poliziesca. Nel 2005 le rivolte erano durate circa tre settimane – ricorda – Con il ritorno dell’ordine pubblico, le promesse di soluzione e di de-ghettizzazione dei quartieri sono volate via. Oggi non siamo nelle stesse condizioni. Mi sembra più appropriato il legame con George Floyd, nel 2019” (Michel Kokoreff, Il Fatto Quotidiano, 02.07.2023)

La Francia, la caduta di una Nazione simbolo tra le democrazie borghesi

E non è un caso che sia la Francia “l’Abendland” della società borghese, proprio dove era nata e dove lo Stato liberale ha storicamente sempre avuto un rilevante peso sociale.

È la prova di una crisi storica dello Stato borghese e della sovranità che ormai non è più riconosciuta, come dice l’ex Premier Simon Walls, che circa un anno fa ammetteva:

C’è violenza nella società francese, forse più che altrove in Europa. Io credo dipenda da una crisi dell’autorità, che da noi ha effetti più gravi. La Francia è un Paese giacobino, verticale, dove lo Stato tradizionalmente è molto forte, la spina dorsale della Nazione. La crisi dell’autorità dello Stato, per esempio nella scuola, porta a rimettere tutto in discussione. Al tema generale della crisi dell’autorità si aggiunge il fatto che nelle banlieue si sono concentrati gli immigrati e i loro discendenti, essenzialmente di origine africana”, aggiunge Valls, sottolineando che “parte di loro non si sono integrati, non si sono assimilati, non amano la Francia, le sue istituzioni, i suoi simboli. È un fatto, non so come dirlo altrimenti”. Inoltre, aggiunge l’ex primo ministro, “sono crollate le grandi istituzioni politiche”, e l’Islam “ha preso un ruolo importante, forse eccessivo. Si è perso tutto quel che costituiva la coesione di una società. Per non parlare della perdita di autorità dei genitori” (Simon Walls, Corriere della Sera, 02.07,2023).

Due Utopie: Il ritorno allo Stato sociale contro il ritorno allo Stato Nazione

Questa situazione sociale esplosiva, deflagrante, in Francia, ma latente in tutto l’Occidente, spiega, a partire dalla Francia, perché nella fase attuale, il sistema capitalistico sia sottoposto ad una crisi storica e ad una tensione palpabile che costringe a blindare strade e centri direzionali dall’assalto degli esclusi e a difendersi dai continui scontri tra manifestanti e forze di polizia. E spiega anche perché il sistema, ormai, ha consumato tutte le sue speranze e sia insostenibile, senza più alternative se non di barricarsi con sistemi di sicurezza sempre  più sofisticati e inaccessibili.

Da un lato, dunque, la soluzione di Le Pen e della destra dei “Patrioti” di un ritorno agli Stati Nazione. Una soluzione, in realtà, impossibile, ma che offre una retorica rassicurazione tra i più vulnerabili, Dall’altro, la disubbidienza civile e la resistenza della sinistra che, allo stesso modo, non trova però soluzioni praticabili poiché, a causa della crisi irrisolvibile, il ripristino dello Stato Sociale, del lavoro a tempo indeterminato, dei servizi pubblici efficienti (per non parlare di una patrimoniale per i più ricchi), è altrettanto utopistico quanto quello del ritorno agli Stati Nazione.

La maggioranza espressa dai progressisti e dai liberali in Europa e in America è, dunque, fuori dalle nostalgie, l’unica possibilità pragmatica. Macron, infatti tenterà di escludere dal governo le forze politiche più radicali. Ma questo produrrà, a livello locale, un violento clima di conflittualità per l’insostenibilità sociale e, a livello globale, per insostenibilità politico-economica con i Paesi BRICS, porterà alla guerra, che risolverebbe entrambe le questioni.

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