La grande personale di Francesco Clemente a Palazzo Sant’Elia testimonia di quel “ritorno alla pittura” teorizzato dal curatore Achille Bonito Oliva, funambolo della parola e vero inventore della Transavanguardia
di Salvo Ferlito*
In altre epoche – quelle in cui la lingua della cultura era il latino, e non uno scialbo, ecolalico e televisivo inglese – si sarebbe giustamente parlato di “ars gratia artis”.
Qual’altro criterio, d’altronde, – se non questo – potrebbe adattarsi meglio all’ideare e agire artistici d’un pittore quale Francesco Clemente, artista contemporaneo che della ricerca eminentemente estetica pare aver fatto il proprio fine elettivo e prioritario? Non va infatti dimenticato che egli (insieme a Cucchi, Chia, De Maria e Paladino) è uno storico componente e protagonista della Transavanguardia, movimento non a caso programmaticamente improntato (dal suo “inventore”, l’immaginifico e televisivo critico Achille Bonito Oliva) ad una mirata “reazione” nei confronti della cogenza costrittiva imposta dalle correnti e avanguardie del secondo ‘900 (con un particolare “rigetto” per le desertificanti limitazioni dettate dall’Arte Povera e da quella Concettuale) e ad un liberatorio “ritorno” al più tradizionale e consuetudinario perseguimento di finalità squisitamente estetiche (in termini di pieno recupero del piacere di dipingere e di realizzare immagini godibili e irretenti).
Due caratteri fondanti e costitutivi (benché non sempre estrinsecati in maniera eccelsa), questi della Transavanguardia, che però – va ribadito con chiarezza – senza l’apporto, il ruolo e lo spessore (ma anche l’esuberante ed egocentrico narcisismo intellettuale) del suddetto Bonito Oliva (assoluto maestro della più imbonente pirotecnia verbale, e tuttavia effettivo ideatore di interessanti modelli interpretativi con cui “leggere” l’arte contemporanea) sarebbero sicuramente rimasti sprovvisti di alcun inquadramento critico o di qualsivoglia forma di sistematizzazione, venendo quindi destinati ad un monadica dispersione al di fuori di accomunanti perimetri linguistici e soprattutto – pecunia non olet – di immancabili “linee guida” per l’andamento del mercato.
La “caleidoscopica” pittura di Francesco Clemente (in esposizione fino al 2 marzo a Palazzo Sant’Elia) va dunque “letta” alla luce di quanto testé premesso, e non può quindi stupire che essa presenti significative note di suadenza e gradevolezza ottiche, quali connotati “strutturali” in grado di fungere da unificante filo conduttore e assimilante denominatore estetico. Ecco allora opere come In love o come Worlds – due grandi acquarelli i cui soggetti sono, rispettivamente, delle api alternate a dei cuori e degli ombrelli colmi d’acqua – attrarre ed irretire gli osservatori col peculiare gioco dei loro allegri e vivaci tonalismi e col gaio horror vacui con cui le inusitate immagini si compongono sulla carta dei supporti. E parimenti Porta Coeli – il grande autoritratto a tempera del 1983, che accoglie i visitatori nella prima stanza del percorso espositivo – offrire un esempio preclaro ed evidente della notevole capacità del pittore napoletano di padroneggiare i colori, dando luogo a calde e intense campiture, e soprattutto fornire la misura della non comune attitudine a comporre le figure con eleganza rarefatta, sviluppando raffinate e armoniose narrazioni visuali. Una inclinazione – quella per l’autoscavo psicologico impregnato di tensione emozionale ed affettiva – che percorre come una correlante tramatura l’intera esposizione, e che ne costituisce in qualche modo un ricorrente e cadenzante leitmotiv. Un pluridecennale racconto di sé che si sostanzia di svariate e fantasiose miliaria e declinazioni (in forma di ibrido uomo-animale in Self-portrait as a Fly, Self-portrait as Snake e Self-portrait as a Hare, tre grandi acquarelli del 2005, o in termini di insolita sovrapposizione con un noto ritratto femminile di Bellini in Winter woman VI, un olio del 2011), tutte però in grado di descrivere e dar forma fedelmente ai tanti modi di intendere – momento per momento – il senso intimo del proprio essere ed esistere. Il tutto “condito” (non senza una spiccata carica d’ironia) da un evidente e percepibile gusto per l’innesto e l’ibridazione di spunti visivi di svariata provenienza (portato dei molteplici viaggi per il mondo e delle tante peregrinazioni di natura culturale), nel pieno rispetto di quel “nomadismo” intellettual-artistico, propagandisticamente “sbandierato” – dal solito mentore Bonito Oliva – quale distintiva espressione della “rivoluzionarietà Transavanguardistica”, ma in verità – ci sia consentito dal critico napoletano – sempre esistito nelle arti visuali, in quanto frutto, in ogni epoca, della fisiologica dialettica dell’artista con l’arte dei suoi contemporanei e con quella dei maestri del passato prossimo e remoto.
La mostra, curata dal già citato Achille Bonito Oliva, può essere vista giornalmente – tranne i lunedì – dalle 10 alle13,30 e dalle 16 alle 19,30. L’ingresso è a pagamento (5 Euro).
*critico d’arte