Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Gaetano D’Espinosa, il direttore d’orchestra il cui cuore è sempre in Sicilia

Una vita piena di armonia, ma anche di passione quando si parla di musica. Lo conferma Gaetano D'Espinosa, direttore d'orchestra a Dresda, il cui cuore è sempre in Sicilia, terra dalla quale non si è mai affettivamente separato

di Gilda Sciortino

Le note inondano la sua esistenza, ma Gaetano D’Espinosa non è un musicista comune. Lui è un direttore d’orchestra, con il cuore che non ha mai lasciato la Sicilia. Oggi vive stabilmente a Dresda, ma non ha mai dimenticato la sua Palermo, dove ha studiato da piccolo violino con Mihal Spinei e composizione con Turi Belfiore, per poi partire giovanissimo per studiare e andare a perfezionarsi con Salvatore Accardo all’accademia “Walter Stauffer” di Cremona.

Ed è proprio in una bella giornata piena di sole, come solo quelle che illuminano la Sicilia, che lo incontriamo per farci raccontare qualche pezzo della sua vita. A farci da scenografia, neanche a dirlo, lo spettacolare Teatro Massimo.

Un curriculum di tutto rispetto che lo vede dirigere con successo in numerosi paesi, uno su tutto il Giappone che lo ospita ogni anno.

«Sono da tempo abbastanza stabile come direttore d’orchestra al Semperoper, il “Teatro dell’Opera” di Dresda, dove dirigo recite. Cito il Gappone non a caso – afferma D’Espinosa – perché la mia permanenza, in questo Paese, è stata lunga. Vi ero entrato poco prima della pandemia per tenere dei concerti con l’orchestra sinfonica più importante del Paese, avendo debuttato nel 2010 al “Pacific Music Festival” di Sapporo. Ero lì quando è stata scoperta la variante omicron e hanno chiuso le frontiere, impedendo a chiunque di entrare. Potevo andare via ma, saltando la presenza di molti ospiti stranieri, la NHK Symphony Orchestra mi ha invitato per la sesta volta come direttore ospite di diversi concerti in abbonamento. A differenza dell’Europa, infatti, il Giappone non ha mai chiuso i teatri, ha solo ridotto la vita sociale.  Per me è stato un momento anche molto esaltante dal punto di vista artistico».

È a Palermo che comincia la sua avventura, il suo viaggio con e nella musica….

Ho studiato nella mia città violino e composizione, ma mi sono diplomato al Conservatorio Verdi di Milano. Contemporaneamente facevo perfezionamento con Salvatore Accardo all’Accademia “Walter Stauffer” di Cremona. Ho, poi, suonato per due anni nell’orchestra “Gustav Mahler” diretta da Claudio Abbado. Siamo nel 2001, un anno dopo ho avuto l’opportunità di fare un concorso per violinista al Semperoper di Dresda, allora diretto da Giuseppe Sinopoli, che però non ho avuto l’onore di conoscere perché è venuto a mancare pochi mesi prima del mio arrivo. Sette anni come primo violino nell’orchestra, ovviamente studiando sempre composizione, e oggi eccomi lì, direttore d’orchestra che ha ancora tanto da dare. Mi piace anche ricordare le orchestre italiane che ho diretto regolarmente come quella della Rai di Torino, la Sinfonica di Milano, la Fenice di Venezia, l’Opera di Roma, la Sinfonica siciliana, il Maggio Fiorentino e l’Orchestra nazionale di Santa Cecilia.

Ma come si diventa direttore d’orchestra?

In genere il presupposto di base è la conoscenza della composizione. In Europa ci sono sistemi diversi, esistono anche scuole che sono solo di direzione d’orchestra. L’Italia, sino  al vecchio ordinamento, prevedeva soltanto la composizione come materia principale e la direzione d’orchestra come appendice pratica. Ci sono stati tanti direttori famosi venuti dall’esperienza d’orchestra, per esempio Arturo Toscanini che era un violoncellista. C’è, però, anche chi ha fatto la classica trafila partendo dall’essere maestro sostituto pianista che accompagnava il cantante in teatro e, poi, arrivava alla direzione d’orchestra.

Che doti, nello specifico, dovrebbe avere il direttore d’orchestra ?

Intanto c’è da considerare il feedback che ti arriva dai musicisti. Poi ovviamente ci deve essere un’abilità innata, anche l’arte di trasferire la propria energia all’orchestra. Ci sono tante persone preparate dal punto di vista culturale, ma che non riescono a comunicare, a trasmettere empatia. Non è, però, così semplice dirigere perché, quando l’orchestra è composta anche da 60 o 70 musicisti, devi avere la capacità di tenere sotto controllo tutto e tutti.

Un mondo al quale accedono anche le donne?

Di donne ce ne sono sempre di più, anche se è un ruolo tradizionalmente più maschile. Ma qui dovremmo intavolare una discussione di tipo sociologico. Da noi siamo ancora indietro da questo punto di vista, mentre soprattutto nell’Europa del Nord e forse ancora di più negli Stati Uniti, le donne stanno prendendo campo superando quella esclusione che veniva operata quando, sentendo la vocazione, desideravano dirigere, comporre, ma venivano messa da parte. Un esempio su tutte oggi è una compositrice molto brava come Silvia Colasanti. L’anno prossimo sarà la prima donna ad avere una sua opera come prima alla Scala. Lei racconta sempre che, quando era piccola, doveva giustificare il fatto che volesse scrivere musica, mentre ora che non vuole dirigere. Sempre qualcosa di cui dare spiegazioni.

Ma si può dire che la direzione sia una vocazione?

È sicuramente una vocazione fare il direttore d’orchestra ma, nel mio caso, è stato anche un caso fortuito. C’era un’orchestra da camera di Dresda, di cui esisteva ancora il nome e il ricordo, ma la cui attività era sospesa da anni, che un organizzatore mi ha chiesto di resuscitare assumendo il ruolo di direttore. Ha funzionato e da allora è storia.

Quali direttori sono stati fondamenti per la sua formazione?

Difficile scegliere perché tutti quelli che ho incontrato e conosciuto sono stati sempre molto diversi tra di loro. Le esperienze più belle per me sono state con Claudio Abbado e Georges Prêtre, ma anche con Fabio Luisi e  Christian Thielemann. Abbado è riuscito a cambiare di colpo il suono dell’orchestra. Ricordo la prima volta che ha preso in mano la bacchetta, eravamo un’orchestra ancora molto giovane, io forse il più piccolo, appena 19 anni. Quando è arrivato, magrissimo, era appena uscito dall’operazione,  eravamo tutti preoccupati perché pensavamo che non ce la facesse, troppo debole, Invece, dà l’attacco del terzo atto di Simon Boccanegra e si crea la magia: da un lato una grandissima leggerezza, dell’altro estrema energia. Riusciva a influenzarti in qualunque condizione, ma senza che te ne accorgessi. Per cui, oltre a essere un direttore di grande qualità, era anche un direttore comodo perché molto rispettoso, cosa che aiutava le persone sostanzialmente timide. Georges Prêtre, invece, era molto diverso, veniva dalle arti marziali. Credo che, nel 2012, avesse quasi cent’anni, con un modo di fare estremamente energico, ma anche estremamente sensuale. Il suo gesto era qualche volta indecifrabile perché c’erano continue sospensioni in cui ci si poteva mettere dentro di tutto. Anche un bell’uomo, con una mimica del viso molto particolare, dirigeva con gli occhi più che con le braccia. Era, infatti, particolarmente significativo e rappresentativo del repertorio coloristico, cioè quello in cui l’orchestra deve fare sfoggio di dinamiche, come nelle sinfonie di Gustav Mahler, nella musica francese di Claude Debussy oppure ancora in quelle di Maurice Ravel e Richard Wagner. Riusciva a riportarti all’epoca in cui questi pezzi erano stati veramente rivoluzionari.

Altri due grandi direttori per lei sono stati Fabio Luisi e Christian Thielemann

Una coppia di Dioscuri.  Luisi è stato quello che mi ha iniziato alla direzione d’orchestra perchè vide il mio talento e mi ha incoraggiato a seguire questa strada. Un direttore un po’ simile ad Abbado, una persona che riesce a far suonare con gran facilità e seguirlo è facilissimo. Una grande abilità e capacità analitica di vedere quali sono le cose veramente importanti. In questo modo tira fuori i pregi della composizione, quindi una persona, mettendo in risalto l’opera più che se stesso. Thielemann, invece, l’esatto opposto, però anche lui è come una macchina del tempo. Nel suo modo di porgere questo genere di musica, tende sempre a ricreare. Ho scelto queste due coppie di direttori con cui ho suonato da musicista perchè classici come tanti nella storia delle musica.

Ma saliamo su un’ideale macchina del tempo e facciamo qualche passo indietro

La figura del direttore d’orchestra è nata tardi, nel ‘700 per esempio non c’era sempre. Nell’Ottocento, invece, si introduce l’uso della bacchetta. La musica del periodo classico viennese, per esempio, è sostanzialmente composta da pezzi chiusi in cui si hanno pochissime variazioni di tempo, mentre quella post rivoluzionaria e romantica é molto mutevole, con passi più lenti, meno lenti: il cosiddetto rubato. Il che vuol dire un cambiamento ritmico all’interno del tempo. Non necessariamente tutti i musicisti dell’orchestra conoscono l’opera intera. In realtà, il direttore d’orchestra nasce da esigenze tecniche e, in parte, anche sociologiche. Nei palazzi nobiliari erano tutti solisti, molto indipendenti, avevano il loro repertorio, c’era più di un compositore tra di loro e poi tutti parlavano musicalmente la stessa lingua, mentre nel Romanticismo le parti diventavano più difficili, con i musicisti confinati al loro strumento. Nel Settecento se ne suonavano numerosi, a differenza dell’Ottocento quando si introducono i grandi virtuosi, grandi specialisti dello strumento, che richiedevano qualcuno super partes che agisse dall’esterno.

Lei è uno di quei giovani che ha deciso di andare via

Si, andato via per studiare a Milano e a Cremona, ma i tempi sono cambiati. Una cosa lasciare la propria terra 20 anni fa, mentre un’altra 10, quando è nata la Comunità europea e l’euro. Se fossi andato via più recentemente, sarebbe stato diverso. È anche vero che non avrei mai potuto fare la carriera che ho fatto se fossi restato qui.

Carriera impossibile da fare solo nel Sud?

Intanto dobbiamo considerare la quantità dell’offerta culturale. Palermo ha due orchestre, quella del Teatro Massimo e l’Orchestra sinfonica siciliana del Teatro Politeama, ma è sempre poco rispetto ad altre realtà europee. Per meglio chiarire, una cosa avere 60 o 70 alzate di sipario all’anno, un’altra non meno di 300 come quello che accade nei teatri di repertorio, per esempio tedeschi, che non hanno la filosofia della stagione. È una questione di cultura. Venezia, per esempio, ha un sistema un po’ miscelato, metà tedesco e metà italiano, nel quale detta legge sempre la stagione, ma riprendendo i titoli; per cui, mentre viene preparata una nuova produzione, si va in scena con le recite di repertorio.   Venezia ha il vantaggio di avere due teatri, La Fenice e il Malibran. In Sicilia, Palermo in particolare, si potrebbe, quindi si dovrebbe fare, ma non è così.

Che tipo di direttore d’orchestra pensa di essere?

Difficile definire se stessi. Posso dire come vorrei essere. Mi piacerebbe essere più nello stile di Georges Prêtre. Una volta, parlavo con una collega giapponese violinista con me in orchestra, avevo già deciso di tentare la strada della direzione, e mi disse che mi immaginava dirigere proprio come lui. Fu come un presagio, una sorta di incoronazione. Ma non è così semplice .perché ci sono momenti in cui siamo più comunicativi e altri meno. Poi, venendo dall’Orchestra io ho una grande empatia che non mi aiuta. Prêtre era uno che rischiava, rendendo le cose anche non facili ai musicisti, mentre io mi metto dalla loro parte. È, comunque, questione di esperienza trovare la giusta misura per essere in pace con se stessi, anche con quella che è la nostra coscienza sociale che ci dice cosa è giusto e cosa no. So solo che ho tanto tempo per imparare perchè le carriere direttoriali sono in genere molto lunghe. Mentre, infatti, un cantante, per esempio un soprano acuto, è raro che arrivi a 60 anni, il direttore a 45 anni è quasi all’inizio. Io mi sento ancora un fiore che deve sbocciare.

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