Donna forte, appassionata e tenace. E’ riuscita a fare breccia nel sindacato, rompendo un po’ la tradizione del genere maschile. Ha vissuto in prima linea le situazioni critiche dell’isola: da Gela a Termini Imerese fino al caso Almaviva. Oggi è Assessora alle attività produttive del comune di Palermo
di Claudia Ferreri
Nostra intervista a Giovanna Marano, Assessora alle attività produttive del comune di Palermo
Com’è nata la sua passione per il sindacato e perché proprio la Fiom?
La mia passione per il sindacato è nata durante il mio ruolo di lavoratrice; scoprendo che si poteva im qualche modo valorizzare la mia professione ossia la professione sanitaria. Ero tra coloro che avevano abbandonato l’università per cercare un’occupazione in campo sanitario e ho fatto l’infermiera professionale.
Devo dire che per me è stato straordinariamente interessante perché erano gli anni in cui il sindacato, soprattutto nell’amministrazione pubblica e nella sanità, riscopriva il valore delle professionalità. Allora venivano definite “professionalità strategiche per lo stato sociale”. Era come se attraverso la riqualificazione, la valorizzazione di alcune figure come, appunto, le infermiere professionali, le assistenti sociali, le insegnanti delle scuole di infanzia vi fosse un focus, una grande attenzione nei confronti di questi ruoli attraverso i quali il Welfare del nostro paese avrebbe potuto crescere.
Questo era il miraggio di chi si avvicinava alla professione in maniera appassionata, senza considerarla una posizione di privilegio del pubblico impiego, del posto fisso. Io, sin da ragazzina, sono stata molto impegnata sul piano anche della rappresentanza degli studenti al liceo. Il sindacato, la CGIL specificatamente, pensavo interpretasse bene questo tipo di esigenza, molto sentita e diffusa nell realtà di lavoro in cui mi trovavo che era quella dell’ospedale Cervello che, negli anni ‘80 , era un avanguardia della sanità cittadina. Lì nasce il mio rapporto con il sindacato in un periodo in cui all’interno c’era una grande conquista da parte di un gruppo di donne per valorizzare la presenza delle donne negli organismi dirigenti. Per cui, subito dopo la mia seconda maternità, cominciai un percorso, anche lento, di allontanamento dall’attività quotidiana.
Mi fu proposto prima un mezzo distacco sindacale, e poi , intorno all ’89, un distacco a tempo pieno con un ruolo di responsabilità nella funzione pubblica. Poi, dopo qualche anno, sono arrivati incarichi più importanti. Mi sono occupata di sanità, di organizzazione di quella categoria che , in quel momento, faceva una battaglia molto importante contro la malasanità. C’era , quindi, questo intreccio della valorizzazione professionale, per cui nascevano tutti i coordinamenti delle professioni sanitarie , insieme alla capacità politica di denuncia sul fronte della lotta alla criminalità che faceva molte incursioni sul piano della mala gestione nella sanità. Una bellissima esperienza che pian piano, nel giro di qualche anno, mi ha proiettato in un impegno nella CGIL siciliana come segretaria confederale.
Lei pensa che il suo essere “donna” l’abbia agevolata o ostacolata nel suo percorso?
Diciamo che , adesso , con la mia consapevolezza dei 57 anni , penso e guardo a quegli anni e ritengo che il mio essere donna, franca, diretta, appassionata, fuori dagli schemi, non avere avuto modo di adagiarsi dietro la possibilità di essere utilizzata, perché la politica delle “quote” molte volte portava ad un rapporto di scelta di colei che era affidabile. Io, invece, ho avuto sempre un piglio mio, di indipendenza, anche di poter affermare il mio punto di vista senza una subalternità rispetto a chi erano i capi, i segretari generali. Questo mi ha penalizzato. Ha contraddistinto sempre un qualche filtro odioso per cui tanti uomini, assolutamente meno vivaci e con meno energia propulsiva, di cui però solo oggi ho consapevolezza, mi sono passati davanti, sono stati premiati e venivano scelti in una logica di gerarchia classica maschilista perché in Cgil non c’era un meccanismo democratico. Per cui i segretari generali si votavano ma sempre su proposta di un segretario generale, notoriamente uomo!
Lei durante questi anni ha avuto modo di seguire le vicende più complesse e drammatiche della Sicilia.
Le ho seguite da diversi punti: di direzione e osservazione. Penso che questo dia un’esperienza ed una capacità di guardare in profondità e con una lente davvero straordinaria. Cioè, magari, oggi tanti pensano che anche nel mio approccio di assessora alle attività produttive continui ancora, in qualche modo,ad abbracciare un ruolo, un ex ruolo. Non è così! Il sindacato dà la possibilità di comprendere le complessità di un negoziato quando in gioco ci sono posti di lavoro, le vite delle persone, le loro prospettive familiari; così come c’è la grande opportunità di capire quali sono i meccanismi che inducono le imprese, da quelle di livello più grande alle piccole imprese dell’indotto, a percorrere le strettoie di una crisi.
E questo forgia sicuramente una capacità di guardare anche in maniera assolutamente più complessiva e generale gli aspetti che si incrociano anche dal punto di vista degli interessi che, naturalmente, molte volte , confliggono, si contrappongono, e trovare una mediazione. Io penso che il lavoro di natura sindacale dia una grande possibilità di mettere a frutto una capacità di mediazione, di raffreddamento dei conflitti, una capacità di ascolto straordinaria.
Devo dire perché questo, dal mio punto di osservazione, completamente diverso, di amministratrice , è quello che io oggi continuo a sentire come una delle mie abilità. Quella di sapere ascoltare e di metterla a frutto con delle connessioni che, a volte, possono far intravedere uno sbocco, una soluzione.
Lei pensa che in queste situazioni di crisi, il lavoro femminile abbia pagato maggiormente le conseguenze?
Io mi sono fatta un’idea. Il lavoro femminile è stato sempre, in qualche modo, penalizzato. Finché l’organizzazione del lavoro, le norme non di protezione sociale ma quelle che, nel nostro paese, prefigurano una condizione di riconoscimento del valore della riproduzione e quindi ci deve essere un riconoscimento sociale per cui se una donna va in maternità non deve essere penalizzata in nessun modo. E ,quando rientra, deve avere pari dignità con gli altri colleghi. Finché nel punteggio di attribuzione di posizioni superiori, dirigenziali, l’essere stata madre non sarà una condizione di svantaggio, di penalizzazione, io penso che nessuno potrà dire che nel mondo del lavoro non ci sono discriminazioni. Quindi, in realtà, basta guardarsi intorno. La condizione di precarietà diffusa rende le giovani madri assolutamente scoperte da strumenti che possano , non solo fargli affrontare la maternità in condizioni di protezione, ma, addirittura, la discriminazione continua ad essere in campo professionale lavorativo una certezza.Io mi auguro che non passino decenni prima di avere meccanismi che riconoscono il valore sociale della maternità, ovvero non solo un periodo di previdenza o di allattamento, e politiche di conciliazione tra uomo e donna diffuse da fare in modo che un padre possa assentarsi esattamente come una madre. La crisi non mi pare abbia introdotto un paradigma del riconoscimento del valore della riproduzione sociale delle donne. Sono fortemente preoccupata. C’è un dibattito debole su questa materia. Ho osservato come, attorno a temi molto sensibili come l’inviolabilità del corpo femminile, ci sia una sorta di strana assuefazione; per cui diamo per scontato che ci sia già una certa consapevolezza tra le giovani donne. Io, invece, temo tanto che questa consapevolezza passi attraverso circuiti sociali, culturali molto selezionati e che si possa tornare a non assegnare il giusto valore anche in termini di prevenzione.
Questo, lo sento, lo avverto come un rischio per le giovani generazioni. Per cui una ragazza con una scarsa consapevolezza della propria identità di donna possa, oggi, continuare a rinunciare, in nome di una priorità professionale, alla maternità come tappa irraggiungibile.