Oggi attira maggiormente uno spettacolo leggero che non si limiti solo a sketch a flash, ma che sia costruito su un canovaccio basato sulla contaminazione di parole, canto, musica, danza e che vuole descrivere qualcosa: un’identità, un periodo, un modo di essere…nostra intervista a Giovanni Nanfa
di Pippo La Barba
Perché il pubblico è attratto sempre più dagli spettacoli umoristici?
Siamo in un periodo di crisi e di disorientamento. Uno spettacolo leggero aiuta a staccare la spina e a sospendere i problemi che ci assillano. Inoltre, il teatro brillante è riuscito ad assecondare i tempi che cambiano, e non tutto il teatro c’è riuscito.
Come è cambiato il cabaret?
Il cabaret non è più graffiante come una volta perché si sono assottigliati i confini che separavano certe ideologie. Continua a suscitare il riso del pubblico se è scritto bene e interpretato da artisti di talento. Purtroppo c’è carenza di autori capaci di percorrere strade nuove e finisce per adottare sempre gli stessi schemi.
Perché?
La cultura limitata degli autori e degli interpreti indirizza sempre di più a tentare la carriera da solisti. Ormai ce n’è troppi e l’inflazione danneggia quei pochi bravi che si trovano sul mercato. Per scrivere testi articolati destinati a più attori bisogna conoscere bene gli artifici retorici che producono la comicità. Il pubblico degli abbonati è diventato più esigente e non si accontenta più di sketch su temi di attualità. Preferisce sempre di più la compresenza di generi, e non parlo di varietà e avanspettacolo, ma di contaminazioni capaci di mettere insieme umorismo, canto e danza.
Ma nel cabaret la musica e un minimo di coreografie ci sono sempre state.
Sì certo, ma la musica serviva a dare dinamismo alla scena. Oggi, invece, è indispensabile che i contenuti passino in buona parte anche attraverso il canto. Il grande Massimo Melodia, ogni anno, durante il secondo tempo del cabaret, spezzava l’intrattenimento con una canzone mediterranea del suo splendido repertorio, ma si trattava di una performance a parte, fuori contesto.
Il tuo ultimo spettacolo al Jolly di Palermo, “Calia e simenza”, che ha avuto uno di questo straordinario successo di pubblico, può considerarsi un esempio di un nuovo modo di fare teatro leggero?
Sì. È un prodotto non accademico, squisitamente leggero che si regge sulla compresenza di umorismo, tradizioni, dialetto, musica, canto e danza. L’ho definito un gioco, perché coinvolge lo spettatore, facendogli cogliere aspetti paradossali della identità del siciliano.
Il teatro, per sopravvivere, ha bisogno del finanziamento pubblico?
Ovvio. Il teatro è come la cultura: bisogna investire. E questo non solo per crescere insieme al pubblico, ma anche perché il teatro costituisce un volano per l’economia alimentando un indotto molto variegato (maestranze, allestimenti, luci, scene, costumi …).
I teatri privati rispetto ai teatri i pubblici sono sottostimati?
Senz’altro. I finanziamenti al teatro pubblico non sono commisurati in nessun modo alla capacità di contribuire, anche in modo parziale, al fabbisogno annuale per sopravvivere. Come se la capacità di attrarre pubblico pagante fosse un handicap culturale. A nessun teatro pubblico al mondo darei un centesimo in più del 50% del suo fabbisogno. Bisogna avere rispetto per i contribuenti. Il teatro privato, nella migliore delle previsioni, riesce a ottenere dai fondi pubblici il 20%. Ci sono teatri pubblici, in Sicilia e in Italia che superano addirittura il 90%. È immorale. Malgrado tutto il teatro privato vende in Sicilia il triplo dei biglietti e degli abbonamenti rispetto a quello pubblico. Dipende in parte dall’offerta variegata del teatro privato e dal tipo di produzioni messe in scena dai teatri stabili, che spesso non hanno appeal.
I teatri stabili non hanno anche la funzione istituzionale di formare giovani artisti in ambito locale mediante laboratori e scuole di recitazione?
Per molti anni attori, autori e registi hanno fatto la gavetta nei teatri privati e poi sono passati al teatro pubblico quando già avevano esperienza e professionalità. Da qualche tempo, per fortuna c’è un’inversione di tendenza. Guardiamo al futuro con un pizzico di ottimismo.