Ripercorrere, attraverso numerose testimonianze, la vita politica e personale di Giuseppe Insalaco. L’intervista al regista palermitano Sergio Ruffino, autore di un libro, un documentario e un film.
di Luca Licata
“I due volti di Palermo” è il titolo del documentario di Sergio Ruffino che, attraverso testimonianze di politici del tempo, magistrati, giornalisti, amici e oppositori, ripercorre gli ultimi anni della vita politica e personale di Giuseppe Insalaco. “Il documentario, parte proprio da quelle ‘due facce’,– spiega Sergio Ruffino – da una Palermo “sommersa”, in quegli anni, dagli scandali dei grandi appalti”. Un giro d’affari di svariati miliardi, che si interruppe con l’elezione di Insalaco a primo cittadino. Forse, la ferma opposizione di Insalaco a quel sistema di potere, però, gli costò la poltrona di sindaco dopo soli tre mesi, e le successive, continue denunce lo portarono, pochi anni dopo, alla morte. Il 12 gennaio del 1988, in via Alfredo Cesareo, l’ex sindaco democristiano, venne assassinato all’interno della sua automobile una Fiat 132, mentre era imbottigliato nel traffico.
Come mai ha scelto proprio la figura di Giuseppe Insalaco per il suo documentario?
Forse perchè sono testardo per natura, e più non mi si vuole parlare di qualcuno o qualcosa, più finisci – alla fine – per alimentare curiosità, quindi desiderio, forse caparbietà: nel mio caso anche passione. E’ una curiosità che può portarti a vedere e sentire cose che difficilmente puoi concepire, o capire: rapporti ed equilibri, fragili ma necessari, perchè la “macchina”, il Sistema, non venga mai distrutto dal suo anti-sistema. Insalaco è Palermo, ed è anche l’Anti-Palermo che ha cercato di frapporsi, due mondi che non potevano coesistere, c’è anche chi nega l’uno e l’altro e chi ritiene che nella Palermo cinica non possano esistere una sfera senza il connubio o l’intercessione dell’altra: lui è finito imploso. La sua fine? Quando ha deciso di fare il sindaco, senza dubbio.
Cosa pensa che abbiano lasciato quei “cento giorni” di sindacatura alla nostra città?
C’è chi parla di una figura di passaggio, una dissolvenza incrociata per dirla con il “mio” linguaggio; apparentemente non succede nulla, e in quel momento forse, non si era capito a sufficienza l’impatto di quel ciclone. Si minimizzava sui suoi atti da “tribuno moralizzatore” e si supponeva che il sindaco venisse schiacciato tra incudine e martello dalle promesse che non era riuscito a mantenere, a quel gruppo di garanti che lo aveva voluto. Secondo me, lo squarcio che lascerà nella città, – una ferita che continuerà a sanguinare quando insisterà non abbassando la testa portando a palazzo San Macuto l’attenzione su Palermo, – si intravede già quel 13 aprile: “avrò troppi amici e saranno troppi i nemici…ma a Palermo fa parte, delle “regole del gioco“. Adesso ci sarò solo Io. Quel giorno, come scrivo nel mio libro, smette finalmente di essere soltanto “Peppuccio.
Dunque Insalaco è rimasto incastrato – anche dopo la morte – in un limbo, nel quale da un lato non era più considerato parte del ‘sistema’ e dall’altro non fu mai pienamente accettato o forse capito. Infatti, nonostante tutte le sue denunce, venne ricordato come una vittima di mafia di “serie b”. Perché?
Insalaco sfugge a una definizione, era visto sempre “in continua corsa” da vivo (quasi come se il tempo, oltre che il suo terreno politico, gli franasse sotto i piedi) figuriamoci in effigie ; il termine vittima è abbastanza scontato, certo, almeno quello; c’è anche una sentenza passata in giudicato, naturalmente è stata la mafia a “premere il bottone”: I mandanti sono ipotizzati, ipotizzabili, quasi certamente sicuri, anche se ogni volta c’è un tassello del “mosaico-Insalaco” che manca, esce dal suo posto o ha uno spigolo che non puoi limare o forzare, lo devi analizzare. Se non si rapporta il personaggio alla Palermo, di quel tempo, è inutile parlarne, risulterebbe dannoso, si distorcerebbe, e difficilmente potrebbe esistere un “sindaco Insalaco” oggi: in un momento di notabili, lacchè e diplomatici, stonerebbe quello che si potrebbe forse definire in un unico modo, un “battitore libero”, e per un momento è stato un titolo che ho accarezzato di inserire in uno dei tre progetti a lui dedicati.
Durante i giorni di prigionia Insalaco comincia a scrivere. Chi cerca? Cosa vuole far sapere?
Quando la fortuna gli gira le spalle e lo abbandona, Giuseppe Insalaco, politico fra i politici e poi primo tra gli esclusi, solo nel suo abbandono, bruciato anche umanamente, aggiunge anche la qualifica di detenuto al suo status: è il momento più buio. Si rivolge a chiunque, agli amici, ai colleghi. Per mesi cerca di reagire, parla e stra-parla, forse parla troppo, probabilmente ha perso la lucidità della mente di politico che bada bene prima di esporsi, o forse dopo aver passato una vita a elaborare e ponderare scelte, adesso pensa che sparare dritto sia l’unica possibilità che ha: per denunciare il comitato d’affari, ma anche per punire chi l’ha rovinato, o tradito. Ribellione e vendetta insieme, seguirà la sconfitta ma nessuno gli permette la redenzione, quella che meritava e che meriterebbe.
Tra le innumerevoli testimonianze e i documenti che ha raccolto per il documentario, c’è un aneddoto in particolare che vuole raccontare?
Gli aneddoti e le storie sono davvero innumerevoli, non so se potrei metterli in graduatoria… ne dico uno, però come altri che, raccontato in quel preciso momento, mi lasciò in silenzio, e molto pensieroso: negli ultimi anni di vita Insalaco era sempre solo al volante della sua auto, niente più polizia o blindate per lui, ma un suo fidato uomo che gli aveva fatto da scorta quando era sindaco e anche nella sua breve parentesi di onorevole all’Ars, aveva sempre voluto rimanere in contatto con lui: appena poteva, finito il suo turno, prendeva la moto e lo accompagnava, seguendolo dovunque andasse. Finchè un giorno, qualche mese prima che lo uccidessero, Insalaco impedì in tutti i modi che continuasse a scortarlo; arrivò ad alzare la voce, fingendo di cacciarlo via con rabbia: in realtà, e volutamente, gli salvò la vita.