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Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Giustizia giusta, dall’utopia alla realtà. Ci salverà una riforma?

Basta una riforma per avere una Giustizia giusta? Ne parliamo con la prof.ssa Maria Agostina Cabiddu, ordinario di Diritto Pubblico presso il Politecnico di Milano. Una giurista di spessore nazionale che, con sagacia e competenza tecnica, ci guiderà in questo complicato sistema della giustizia italiana

di Redazione


Riprendiamo le uscite all’interno della nostra rubrica “L’Inchiesta Giustizia” con una serie di interviste ad autorevoli giuristi del nostro Paese. Il fine è quello di dare spazio ad analisi e approfondimenti, sulle questioni giuridiche più cruciali per la vita dei cittadini. Cosa fare per avere una Giustizia giusta?
Questa volta, abbiamo voluto ospitare sulla nostra rubrica una giurista di rilievo nazionale, dando vita ad un vivace e sagace dibattito al femminile. E ci auspichiamo di poterlo fare con una certa frequenza. Non per essere faziose, ma in genere, nelle principali ribalte nazionali su temi giuridici, si registra una prevalente presenza maschile di commentatori.

La riforma Cartabia, ormai approvata con la fiducia, assieme ad altre delicatissime questioni, quali quelle relative alle decisioni intraprese in merito alla vicenda “Storari”, è oggetto della valutazione fatta da Maria Agostina Cabiddu, prof.ssa ordinario di Diritto Pubblico presso il Politecnico di Milano, protagonista odierna della nostra rubrica.
Vista la spigolosità dell’argomento, riforma della Giustizia, da tempo, ormai, al centro di polemiche, teniamo a fare una precisazione. La prof.ssa afferma, in una delle risposte, che, non i verbali – “… ma la copia non firmata dei verbali dell’interrogatorio dell’avv. Amara, sembra, siano stati consegnati al Consigliere del Csm presso l’abitazione del dott. Storari. Da quanto riportato dai giornali, a conclusione delle indagini, sarebbe in atti, invece, diversa dichiarazione secondo cui la “datio” materiale dei documenti sarebbe avvenuta presso l’abitazione milanese del consigliere anziano del CSM.
Sul punto, pertanto, il nostro giornale proseguirà, nelle prossime uscite del lunedì, con ulteriori approfondimenti.

L’Inchiesta Sicilia – Professoressa, il dibattito sulla riforma della giustizia si è manifestato con toni parecchio aspri, attacchi diretti alla guardasigilli con epiteti così severi da far sospettare della loro natura, forse anche, sessista. A cosa attribuisce lo scontro in atto tra magistratura e decisore politico?

Prof.ssa Cabiddu – Premesso che, in realtà, a me è sembrato che più che attacchi si siano levati, nel dibattito politico-mediatico, cori di acritica esaltazione della riforma e della stessa ministra – proposta sugli scudi per altri e più alti ruoli istituzionali -, sono da sempre dell’idea che gli argomenti “ ad hominem ” ed ovviamente quelli “ ad foeminam ”, dal punto di vista logico lascino il tempo che trovano… non accrescono né diminuiscono la forza o la debolezza di un’idea, che è l’unica cosa che dovrebbe interessare … tutto il resto – si badi: che si tratti di insulti o di lodi – è colore e, più spesso, noia.

L’Inchiesta Sicilia – Agli occhi della opinione pubblica sembra quasi che non si voglia il risultato finale che invece è meritorio: ossia la riduzione dei tempi della giustizia. Piuttosto che un intervento sui tempi processuali, un marcato alleggerimento, mediante depenalizzazione, delle fattispecie incriminatrici e una riforma dell’ordinamento giudiziario non sarebbero stati invece una soluzione?


Prof.ssa Cabiddu Non credo ci sia qualcuno – tantomeno un’intera categoria (i magistrati) o interi gruppi politici (il movimento 5 stelle) – che vuole il “fine processo mai” o “imputati a vita” … questo​modo di porre la questione è figlio di quella stucchevole polemica, che da troppo tempo ci ammorba e che vorrebbe contrapposti garantisti e giustizialisti.
A voler discutere seriamente si dovrebbe concedere il beneficio della buona fede a entrambe le parti, considerandole – fino a prova contraria – entrambe interessate a una “giustizia giusta”: non è tale un processo che si trascina nel tempo, mantenendo sospesi nell’incertezza i soggetti coinvolti ma non lo è – per definizione – la giustizia denegata, che chiude il processo con la prescrizione o l’improcedibilità.
Certo, il processo è di per sé una pena, tanto più grave quanto più si prolunga nel tempo e tuttavia non vi è altra strada per accertare la fondatezza o meno di un’accusa. Si tratta allora di bilanciare l’interesse all’accertamento della verità e della responsabilità – un dovere per i magistrati ma anche un diritto per le vittime e per gli imputati innocenti – con l’interesse alla ragionevole durata e, se questo è il problema, immaginare di risolverlo tagliando il processo sarebbe come pensare di eliminare il Covid sopprimendo i contagiati invece di aggredire il virus, cioè la causa.
Peraltro, data l’obbligatorietà dell’azione penale, tante più sono le fattispecie di reato tanto più numerosi saranno i processi, le energie impiegate per celebrarli, i tempi di svolgimento. Da qui la necessità di un serio intervento di depenalizzazione (laddove troppo spesso assistiamo all’introduzione di nuove figure di reato al solo scopo di tacitare un allarme sociale alimentato dalla propaganda di chi, invece di governare la paura, governa con la paura) e di adeguate misure sul fronte dell’organizzazione e delle risorse – umane e materiali – da impiegare al fine di dare risposte strutturali e non di tipo emergenziale. Poi bisognerebbe, una volta per tutte, smetterla con gli interventi ortopedici che innestano nel sistema istituti e brani di meccanismi, che magari funzionano bene in altri contesti ma di cui non si sia verificata la compatibilità con il nostro: prima o poi vengono rigettati e, quel che è più grave, finiscono per mettere in crisi l’intero sistema.


L’Inchiesta Sicilia – Il governo ha trovato un punto di caduta, in tema di prescrizione con il nuovo istituto della improcedibilità, pensa che, con ciò, si riesca realmente a ridurre la tempistica processuale?


Prof.ssa Cabiddu La soluzione trovata mi lascia davvero perplessa, per diverse ragioni. Innanzitutto, come accennato, si tratta di un’ escamotage per tagliare i (tempi dei) processi, senza un serio tentativo di bilanciamento con l’altro interesse, quello all’accertamento della verità, parimenti meritevole di tutela per la nostra Costituzione, che non consente di privilegiare l’uno a scapito dell’altro.
Per il resto, faccio mie le perplessità sollevate, oltre che dal CSM e dai magistrati, anche da molti altri operatori del diritto che stigmatizzano l’“ibrida commistione” prescrizione/improcedibilità immaginata dalla riforma, che dà luogo a una serie di aporie – basti pensare alla nebbia circa il destino della sentenza di condanna inflitta in primo grado – che basterebbe di per sé a giustificare il giudizio degli studiosi su questa parte della riforma: “priva di qualsiasi ragionevolezza”.
Né mi convince l’affermazione secondo cui la riforma si applica (solo) ai reati successivi al 1° gennaio 2020. Il nostro sistema riconosce, infatti, al principio di retroattività della lex mitior un sicuro fondamento costituzionale e internazionale (dall’art. 3 Cost. all’art, 7 CEDU passando per diverse altre norme del diritto internazionale, vincolanti per l’Italia in virtù dell’art. 117, primo comma Cost.). Su questa base, la giurisprudenza europea e costituzionale ha progressivamente esteso la garanzia in questione (v. Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 27 aprile 2010, Scoppola e, da ultimo, Corte cost. n. 63/2019), sicché è facile immaginare che – dati gli effetti “sostanziali” dell’improcedibilità, equiparabili a quelli della prescrizione – venga presto sollevata la questione dinanzi al giudice delle leggi, posto che la disposizione in questione sembra “limita[re] in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite e viola[re] l’art. 3 della Costituzione”. Altrettanto problematica l’introduzione di una serie di fasce per la celebrazione dei processi a seconda dell’imputazione, che finisce per creare doppi e tripli binari: gli anni dell’appello sono 2; in alcuni casi 3; in altri 5 e poi 6, un vero groviglio dal punto di vista procedurale, aggravato dalla previsione di eventuali proroghe motivate dalla complessità del processo, che dà al giudice una discrezionalità la cui ampiezza mal si concilia con le invocate garanzie.
Certo, tutti abbiamo sentito l’invito della Ministra a considerare la riforma nel complesso e se questo può essere condivisibile non lo è invece la pressione esercitata per la sua celere approvazione, enfatizzando il nesso con le risorse del Recovery e ricorrendo a quel “ce lo chiede l’Europa”, troppe volte usato negli ultimi anni, anche per mettere mano alla Costituzione. Peraltro, a me sembra che nella prospettiva europea, forse la priorità avrebbe dovuto essere riconosciuta al processo civile, la cui irragionevole durata e le difficoltà nell’esecuzione delle sentenze sono dei potenti deterrenti per ogni imprenditore potenzialmente interessato a investire nel nostro Paese. Senza contare che, in molti casi, fatte le riforme non seguono gli strumenti per applicarle. Basti pensare alla mancata attuazione dell’art. 492- bis (ricerca telematica dei beni da pignorare), che costringe i creditori, che faticosamente hanno ottenuto una sentenza favorevole, a subire la beffa di un’amministrazione, che per essere priva di uomini e di mezzi (strumenti informatici forniti agli UG per le attività disposte, registro informatico previsto dalla normativa, integrazione degli UNEP nel processo di informatizzazione della giustizia nel PCT) non è in grado di portare ad esecuzione il titolo. Quanto al processo penale, l’Europa non canta “l’importante è finire”​.
Secondo la Corte di giustizia, (sentenza 8 settembre 2015, (cd. sent. Taricco), infatti, la prescrizione italiana pre – Bonafede era in contrasto con l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE), dal momento che pregiudicava la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea come in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA), con il conseguente obbligo per i giudici nazionali di disapplicare la normativa nazionale nella parte in cui poneva il limite di un quarto alla proroga del termine di prescrizione. Tale decisione è stata ribadita dalla stessa Corte, con sentenza 5 dicembre 2017, precisando che, mentre fino all’entrata in vigore della direttiva (Ue) 2017/1371, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di Iva non era oggetto di armonizzazione da parte del legislatore Ue (punto 44), per i reati commessi successivamente a tale data, l’Italia è tenuta a modificare la propria normativa in modo da consentire, per i casi di frode grave che ledono gli interessi Ue (come in materia di Iva), l’applicabilità di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive.


L’Inchiesta Sicilia – La riforma della giustizia a firma Cartabia prevede l’istituzione di due comitati tecnico- scientifici: uno per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria e l’altro per la digitalizzazione del processo. Non le sembrano un po’ troppo tenuto conto che il lavoro svolto, in sede di sintesi politica, viene spesso rubricato come semplice ” apporto culturale”? Cosa manca ai corpi tecnici dello Stato per fare ciò che si chiede di fare a tali comitati?


Prof.ssa Cabiddu Sinceramente non condivido tutto questo fiorire di agenzie, consulenti e comitati, di cui non è sempre chiara la genesi, il ruolo e neanche l’utilità. Il punto è che negli ultimi decenni si è proceduto senza tregua alla desertificazione dei corpi tecnici dell’amministrazione e alla delegittimazione dei dipendenti pubblici delle diverse categorie, non ultime quelle dei professori universitari e dei magistrati. Si colloca forse, in questo clima di disconoscimento delle competenze e del lavoro svolto dalle amministrazioni la pretermissione del “Monitoraggio della giustizia penale – anni 2003/2021, curato dal Ministero della giustizia . Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi – Direzione generale di Statistica e Analisi organizzativa” pubblicato il 20 luglio u.s.

Da esso si apprende innanzitutto, per rispondere alla sua domanda, che il Ministero è perfettamente in grado di svolgere studi e monitoraggi, che ora si vorrebbero assegnare a fantomatici comitati e, soprattutto, spostandosi sui temi, che tra il 2003 ed il 2021:

le pendenze medie in cassazione sono diminuite di un terzo;
le pendenze in appello sono raddoppiate;
le pendenze davanti al tribunale monocratico sono raddoppiate;
le pendenze davanti al tribunale collegiale sono aumentate di un quinto;
le pendenze davanti al GIP/GUP sono diminuite di un terzo.

Questo per dire che, mentre il Ministero propone l’istituzione di un Comitato esterno per il monitoraggio e l’efficienza del sistema penale – compito che abbiamo visto essere perfettamente in grado di svolgere da sé -, non tiene conto dei risultati del monitoraggio interno e promuove la riduzione della durata del giudizio di appello a fronte del raddoppio delle pendenze…


L’Inchiesta Sicilia – Rispetto ai criteri generali che verranno indicati con legge del Parlamento come si concilieranno con i criteri di priorità predeterminati dalle procure?


Prof.ssa Cabiddu La risposta non è affatto semplice, dal momento che si tratta di contemperare esigenze e principi che lo stesso costituente non è stato in grado di comporre univocamente, quello dell’indipendenza della magistratura e, in particolare, del PM e quello dell’obbligatorietà dell’azione penale.Peraltro, la progressiva evoluzione del sistema è nel senso del riconoscimento dell’indipendenza del PM sia esterna che interna, quest’ultima realizzata nell’attuale Codice con la “personalizzazione delle funzioni” – su cui ha inciso, com’è noto, la riorganizzazione delle procure volute dalle “riforme” Castelli/Mastella, con effetti previsti, fra gli altri, da Alessandro Pizzorusso e oggi sotto gli occhi di tutti come evidenziato dalla vicenda dell’hotel Champagne – mentre, sul fronte dell’obbligatorietà dell’azione penale, ferma la preclusione del suo contrario – il cd. “principio di opportunità” -, è indubbio che l’ipertrofia delle fattispecie incriminatrici e il sovraccarico della giustizia penale derivante anche dalla ricorrente commissione di reati insopprimibili fanno emergere la necessità di “criteri di priorità”, volti a selezionare le notizie di reato secondo la capacità di smaltimento del lavoro.
Occorre allora stabilire quale sia l’organo deputato a formulare tali criteri: escluso, secondo l’orientamento interpretativo maggioritario, che possa essere il Governo, la scelta è tra le singole procure (su cui la nota “circolare Zagrebelsky” del 1990) e la legge del Parlamento, soggetta in quanto tale al controllo della Corte Costituzionale (in tal senso, la “Bicamerale d’Alema” del 1997).​Entrambe le soluzioni sono, in astratto, compatibili con la Costituzione e tale sarebbe forse anche una loro combinazione… Osservo, tuttavia, che poiché la sanzione penale è un’ extrema ratio , il legislatore dovrebbe semplicemente depenalizzare le condotte che ritiene non necessariamente sanzionabili con la pena, assumendosi chiaramente la responsabilità delle scelte. Più chiaramente: temo criteri generali fondati sull’allarme sociale causato dal reato … un modo per scriminare, surrettiziamente, la criminalità dei “colletti bianchi” (falso in bilancio, corruzione, frodi in commercio, appropriazione indebita, bancarotta, frode fiscale, scorrettezze nelle curatele fallimentari, etc.), già potenziale fruitrice di prescrizione e improcedibilità.

Altra cosa sarebbero le linee guida delle Procure o del CSM, frutto della discrezionalità “tecnica”, ispirate ad una concezione “realistica” dell’azione penale piuttosto che sulla mera casualità o sulla discrezionalità dei singoli P.M. (v. la cd. circolare Maddalena 10.1.2007, n. 50/07, (dal nome dell’estensore, all’epoca Procuratore della Repubblica in Torino, in Quest. giust . 2007, p. 617).


L’Inchiesta Sicilia – Con riferimento alla vicenda Amara il Codacons ha chiesto di costituirsi come parte offesa nell’inchiesta aperta dalla Procura di Brescia perché: “…… I fatti, se confermati, getterebbero grave discredito sull’istituzione in cui si incarna la magistratura italiana, con un danno all’immagine dell’istituzione e ripercussioni dirette per gli utenti della giustizia, rappresentati dall’associazione”. Che ne pensa della presenza di tali enti nei processi?


Prof.ssa Cabiddu Non so nei confronti di chi questa associazione si sia costituita né con riferimento a quale tipo di reato. Ad ogni modo, spetterà al giudice verificare l’effettiva legittimazione del Codacons, che deve potersi definire soggetto collettivo titolare dei beni giuridici lesi dai reati ipotizzati, in relazione a quanto previsto dal proprio statuto e/o in considerazione dell’attività effettivamente svolta e documentata, dimostrativa di uno specifico collegamento con la tutela degli stessi beni giuridici.
Mi è capitato spesso durante la mia attività professionale di difendere comitati e associazioni e ritengo che il tema della legittimazione sia da considerare con grande serietà, per non incorrere in un’inammissibilità, che rischia di danneggiare il cliente e di far arretrare, non avanzare, la garanzia dei diritti.​


L’Inchiesta Sicilia – Sempre riguardo a tale vicenda, è emerso che gli estratti dei verbali sono stati consegnati all’ex consigliere anziano del CSM Il percorso intrapreso le sembra il più appropriato?


Prof.ssa Cabiddu La consegna – non dei verbali – ma di copia non firmata degli stessi al consigliere Davigo sembra sia avvenuta presso l’abitazione del dott. Storari, il quale – è agli atti e, a giudicare dall’esito del giudizio cautelare dinanzi al CSM, i fatti, almeno per questa parte, sono sufficientemente provati – aveva più volte sollecitato l’iscrizione della notizia di reato ai vertici della Procura. Quanto al possibile coinvolgimento della Procura generale meneghina, bisogna considerare che all’epoca dei fatti, nella primavera del 2020, il ruolo era vacante e ben difficilmente un reggente fa ricorso all’avocazione, unico atto possibile in astratto ma certamente molto invasivo, tanto che, ad oggi, neanche il nuovo Procuratore generale, a nove mesi dal suo insediamento ufficiale e nella pienezza di forza e poteri di cui il reggente è privo, non ha (ancora) ritenuto di avocare a sé le indagini affidate al sostituto Pedio. Molti hanno peraltro sostenuto che, in alternativa, o cumulativamente, il pm avrebbe potuto rivolgersi al Csm attraverso un atto formale, non essendo contemplata la consegna a mano in via confidenziale. Ora, le norme non possono prevedere tutto e certamente non c’è una norma che prevede come comportarsi quando atti coperti da segreto riguardino componenti dello stesso CSM, aspetto che i “formalisti” della domenica fingono di ignorare ma che, all’evidenza, qualifica la fattispecie concreta. Le dichiarazioni dell’avvocato Amara coinvolgevano, infatti, anche due membri del CSM e dunque seguire la via formale avrebbe necessariamente comportato la “disclosure”, come infatti è avvenuto ad aprile di questo anno quando il consigliere Di Matteo ha portato in Consiglio la notizia.

Il che è quanto dire che l’interpretazione sistematica e teleologica delle norme esistenti seguita da Storari e Davigo era – nelle condizioni date – non solo quella più appropriata ma, a ben vedere, l’unica possibile. Infatti, come ammesso dallo stesso Procuratore generale della Cassazione, una volta che il dott. Davigo ha informato chi di dovere, c’è stata l’iscrizione della notizia di reato, senza alcuna violazione del segreto da parte di coloro che ne erano stati correttamente informati, a conferma che il percorso era appunto quello adeguato allo scopo. Alla luce di questi fatti, oltre che delle faide fra correnti all’interno della magistratura, si comprendono forse le “vere” motivazioni della cacciata del dott. Davigo” dal CSM: un gravissimo precedente, che non trova a mio avviso alcun fondamento in Costituzione – come ho cercato di spiegare nei due articoli che ho scritto sulla vicenda – e che peserà (r ectius : ha già iniziato a pesare) sul futuro della magistratura, sulla sua autonomia e indipendenza.
Quanto al caso della c.d. “loggia Ungheria”, credo che il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato e la successiva rivelazione del segreto abbiano irreversibilmente pregiudicato quelle indagini, sicché temo che anche quella vicenda sia destinata a trasformarsi in uno dei tanti misteri italiani, buona a riempire pagine di giornali quando la cronaca batte la fiacca.


L’Inchiesta Sicilia – Il percorso legislativo attuale sembra indicare una significativa volontà politica futura di ridimensionamento del ruolo della magistratura, che ne pensa?


Prof.ssa Cabiddu Sembra anche a me ma devo dire che anche la magistratura ci ha messo del suo e non mi riferisco solo allo scandalo Palamara o alla recente rivolta della maggior parte dei procuratori milanesi nei confronti del loro capo. Da troppo tempo, il sistema delle correnti, più che a alimentare una dialettica culturale serve a determinare carriere. Che questo possa accadere talvolta anche in altre associazioni (ivi comprese quelle dei professori universitari), non toglie nulla alla gravità del fenomeno, rispetto al quale proprio il dottor Davigo – procurandosi l’ostilità di molti – abbia cercato in tutti i modi di opporsi, finendo per uscire da Magistratura Indipendente – dominata da Cosimo Ferri – per dar vita ad Autonomia e Indipendenza. Peraltro, molto si è detto e scritto anche ultimamente sul corporativismo dei magistrati e si è molto criticata la loro disciplina interna. Occorre tuttavia essere obiettivi. Se, infatti, secondo l’art. 54 della Costituzione “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” sembra ovvio, a mio avviso, che se tale dovere vale per qualsiasi dipendente pubblico soggetto alla legge, a maggior ragione, debba valere per chi la legge la fa, rappresentando la Nazione.

Per garantire il rispetto di tale dovere, tutte le amministrazioni hanno una propria “giurisdizione domestica” sugli illeciti disciplinari e, sinceramente, mi pare che, fra i diversi corpi dello Stato, la magistratura sia, da questo punto di vista, molto severa con se stessa: basti guardare alle conseguenze (sul piano disciplinare) delle recenti vicende e, in particolare, alla destituzione di Palamara e alle dimissioni di svariati membri del Csm, oggi raggiunti anche da pesanti sanzioni disciplinari, tutto ciò – com’è ovvio ,– senza aspettare la conclusione dei processi penali, che risultano ancora pendenti. Non mi pare, invece, che siano stati sanzionati gli onorevoli Ferri e Lotti, anch’essi, come è noto, coinvolti nella vicenda. Il che è quanto dire che quella dei politici è l’unica categoria che sembra non conoscere responsabilità (si badi non morale ma) disciplinare, tanto che, con l’aiuto di certa stampa sedicente garantista, continua a stravolgere il senso di un’affermazione , peraltro, ovvia: quella per cui ciascuno dev’essere, innanzitutto, in grado di fare pulizia a casa propria e, dunque, in questo senso, non si può sempre aspettare il passaggio in giudicato dell’eventuale sentenza penale. Per tornare alla domanda, certo ci sono Paesi in cui non è stabilita la separazione dei poteri e la politica controlla la magistratura ma sono Paesi che non hanno una Costituzione, nel senso moderno del termine (art. 16, Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) e nei quali non mi piacerebbe vivere.

L’Inchiesta Sicilia – Perché nel dibattito in atto non è intervenuto nessun accademico, meglio, nessuna giurista? Eppure tre sue colleghe hanno fatto parte della Commissione Lattanzi e una in particolare, la prof. Mannozzi, molto vicina al dott. Davigo, ha sottoscritto una riforma che sembra andare nella direzione opposta riguardo il contrasto alla corruzione, le sembra coerente?


Prof.ssa Cabiddu – Credo che, oltre alla questione di genere, giochi al riguardo un malinteso senso del, per così dire, “rispetto istituzionale” o della colleganza, essendo l’attuale Ministra della Giustizia una costituzionalista, prima donna presidente della Corte costituzionale. Quanto alla prof. Mannozzi, non ne farei, anche qui, una questione personale né tantomeno guarderei ai suoi rapporti di amicizia e/o professionali; ciascuno all’interno della Commissione, che è un collegio, credo abbia dato il contributo di cui era capace e, sinceramente, non conosco quale sia stato il suo: ad ogni modo, questo conta non di chi sei amico o conoscente.


L’Inchiesta Sicilia – Dal punto di vista della divisione dei poteri e dell’uguaglianza dei cittadini, la riforma, in approvazione con la fiducia in Parlamento, supererà il vaglio della verifica costituzionale?



Prof.ssa Cabiddu - Vedremo. Certamente ci sono profili che interpellano diverse disposizioni costituzionali e, in particolare, l’articolo 104, l’art. 112 sull’obbligatorietà della legge penale ma anche lo stesso 111 e, più in generale, come si è detto, il canone della ragionevolezza (ovvero l’art. 3 della Costituzione), cui il legislatore dovrebbe sempre informare la sua azione e che spesso ha portato la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità di leggi o atti aventi forza di legge.





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