Tra giugno e luglio sono scomparsi molti registi e attori. Di estrazione ed esperienza disparate, hanno contribuito a rendere più vario il cinema
di Massimo Arciresi
Una premessa. L’umanità sta attraversando un periodo triste, cupo, sanguinoso, punteggiato da cronache impietose. Eppure bisogna proseguire, ognuno nel suo campo. Nella fattispecie ricordando alcuni interpreti e autori che ci hanno lasciato nel giro di pochi giorni. Ognuno di loro ha dato un contributo diverso al cinema, facendosi portatore di uno sguardo in alcuni casi disincantato, in altri profondo. Perché la settima arte è, e deve essere, ugualmente composta di riflessioni e di momenti d’intrattenimento, ed è ciò che la rende amabile e accessibile a tutti.
Il primo ad andarsene (troppo presto) è stato il ventisettenne Anton Yelchin, ucciso tragicamente dalla propria auto. Giovane talento in grado di fronteggiare Anthony Hopkins in Cuori in Atlantide (2002), si era distinto all’interno degli affollati cast di Alpha Dog (2006), Terminator Salvation (2009) e Il nemico invisibile (2014), ma aveva fornito una bella prova pure nel solo apparentemente scanzonato Charlie Bartlett (2007). Aveva già completato ben cinque nuovi film, uno dei quali, Star Trek Beyond (terzo episodio del reboot della famosa serie), è in uscita proprio adesso.
Alla fine di giugno la dipartita, a 86 anni, di Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli, ex-sportivo (fu un nuotatore olimpico) prestato al cinema quasi per caso, diventato popolarissimo grazie alla sterzata verso il comico dello spaghetti-western (da Lo chiamavano Trinità… in avanti) e a prodotti per famiglie a base di scazzottate, spesso in coppia con Terence Hill (…Più forte ragazzi!, …Altrimenti ci arrabbiamo!, Pari e dispari, Nati con la camicia). Però non dimentichiamo gli assolo della serie gialla di Piedone, di Lo chiamavano Bulldozer, nonché le puntate verso generi differenti (guidato da nomi del calibro di Montaldo, Argento, Lizzani, Olmi).
Oltre a Robin Hardy, scarsamente prolifico regista britannico che sedette dietro la cinepresa del seminale The Wicker Man, dedichiamo alcune (insufficienti) righe a Michael Cimino, 77 primavere, cineasta orgogliosamente schivo che firmò appena sette opere (il sistema non gli permise di realizzarne ancora ed era praticamente inattivo da vent’anni), responsabile del glorioso Il cacciatore (1978), che gli valse l’Oscar, e, appena due anni dopo, di un disastro (economico, non certo in termini di qualità) come I cancelli del cielo, causa, si dice, del tracollo della United Artists e dell’esilio artistico toccato al nostro. Ciò non gli impedì di siglare almeno due ulteriori importanti lavori (L’anno del dragone e il remake di Ore disperate, che misero in evidenza la bravura di Mickey Rourke).
Dobbiamo salutare anche Abbas Kiarostami (76), le cui pellicole chiamate E la vita continua (1992), Sotto gli ulivi (1994), Il sapore della ciliegia (1997, Palma d’Oro a Cannes), Il vento ci porterà via (1999) – e non è che una selezione – ci hanno insegnato a conoscere un Iran rurale, fatto di povertà e di semplici rapporti interpersonali, che poi sono universali (vedi il più recente Qualcuno da amare, del 2012).
Oltre a Corrado Farina, che terminò appena due immaginifici lungometraggi (Hanno cambiato faccia del 1971 e Baba Yaga del 1973), diciamo addio al settantenne argentino naturalizzato brasiliano Hector Babenco, che orchestrò un pugno di disturbanti titoli (fra essi, Pixote, la legge del più debole, Il bacio della donna ragno e Ironweed) che hanno segnato le platee.