Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

I have a deal

di Redazione

A conclusione della prima mobilità del progetto TOOL, la Casa della Cultura Araba “AlQuds Palermo” ha organizzato il Festival delle Culture. Intervista a uno degli artisti che vi hanno preso parte

di Walter Nania

“Il mio nome d’arte, Muphasah, risale a quando ero piccolo. E’ il nome del leone, è invincibile. Lui non ha paura, e lotta. Il senso della lotta esiste quando vuoi arrivare con l’arte, allora nel rap diventa anche una metafora. Quando si vive il freestyle come battle, l’MC cerca di farsi strada: così nasce il rap. “MC” sta per “maestro di cerimonia”, Master of Cerimony, chi dirige la sfida, colui che scrive le rime e compone le canzoni nello schema del rap”.

Sabato 1 Marzo, a conclusione della prima mobilità del progetto TOOL, la Casa della Cultura Araba “AlQuds Palermo” ha organizzato il Festival delle Culture. L’evento si è svolto nei locali della Real Fonderia, in piazza Fonderia, a Palermo. Il progetto TOOL (Theater Of Organic Learning), partenariato di apprendimento Grundtvig, finanziato dall’Agenzia EACEA della Commissione Europea, è un progetto che mira a sviluppare e promuovere percorsi educativi attraverso il teatro e l’apprendimento organico, lavorando sulle cosiddette Competenze Chiave Europee, legate a concetti che trattano il tema delle culture. Il processo di avvicinamento alla data dell’1 Marzo è stato preceduto da incontri e interviste agli artisti che hanno preso parte al Festival, a partire dall’idea che un’iniziativa sul teatro inteso come incontro e veicolo d’identità culturale, potesse anche divenire musica, rappresentando ciò che accade in città: la resistenza delle donne espressa dalle reinterpretazioni dei canti di Rosa Balistreri, il contatto tra la dimensione mondana e quella ultramondana, come espresso dal gruppo che ha suonato musica tamazight. O ancora il rap di Muphasah, la cui storia merita di essere raccontata.

Il suo nome è Theodore Ofori, nato ad Accra, in Ghana. E’ interprete e traduttore presso il tribunale di Palermo, nonché rapper, dj e compositore. Guardo la sua pagina facebook e il canale su youtube, prima che cominci l’intervista. “Avevo diciassette anni, sono arrivato nel 2001 a Palermo, dove mio padre aveva trovato lavoro. Nel ‘98 -‘99 avevo già cominciato a fare reggae, era la mia fase di reggae-intrattenimento a scuola. Facevo i pezzi di uno degli artisti più importanti dell’Africa, Lucky Dube. Così come un altro artista locale, Rocky Dawuni, che ha portato in alto la bandiera del reggae nella storia del Ghana. A quei tempi il rap mi affascinava, ma non era facile trovare le canzoni. Quando sono arrivato in Italia sono riuscito a seguire passo per passo artisti di cui ammiravo il messaggio e il mondo a cui appartenevano”.

Sto registrando l’intervista con Martina, con cui lavoro all’organizzazione del Festival, siamo all’interno di un ristorante, gli odori della cucina si fanno sempre più intensi, fra poco sarà ora di pranzo, e Muphasah continua il suo racconto: “… in Italia avevo perso il mio mondo. Sentivo di avere una cosa bella, la musica, e in questo altro mondo sembrava tutto falso. Gli altri non sapevano neanche che cos’era la mia musica. A poco a poco sono cominciati a nascere vari scambi con dei ragazzi di Palermo, così cominciai a capire che qualcosa c’era. Un mio compagno di scuola mi diede un CD di musica hip hop anni ’90, con cui cominciai ad abbracciare l’idea che c’era della musica da fare. Ci riunivamo al Politeama a fare freestyle, creavamo un cerchio. A Palermo ho conosciuto Spenish come produttore di beat, poi sono stato invitato a far parte di un gruppo palermitano di rap underground e sperimentale, LFS (L’altra Faccia del Sud). Nelle mie rime c’è spesso l’amore, così come gli alti e i bassi delle mie esperienze. Tutto ciò che si può raccogliere e mettere in arte: tutto diventa per me come un seme, perché mi restituisce un’analisi di me e di come va la mia vita; è come un resoconto, un diario. Come un succo, un seme che diventa completo sposandosi con la musica”.

Nelle sue canzoni ci sono momenti di riflessione, di considerazioni sulla violenza dell’uomo e dialogo con Dio. “I have a deal”, “ho fatto un patto con me stesso”, è il pezzo che più lo rappresenta. “Quando ci sono certe cose che rendono il mondo così impotente, come le armi che minacciano l’uomo, a volte ci sentiamo in pericolo. Certe cose sembrano lontane, ma in realtà siamo tutti coinvolti […]. Tra poco uscirà un disco, il titolo sarà questo. Quando scrivo cerco di essere metaforico, cerco di inserire le mie immaginazioni: vedere qui un nero  che guida l’autobus o che esce da un ufficio in giacca e cravatta, perché non può esistere? La realtà diventa altra. […] Dico di risvegliare Martin Luther King perché sta sognando troppo, bisogna svegliarsi. Il mio è un richiamo: I have a deal come I have a dream, ma nel mio modo specifico di dirlo. Sdrammatizzo, dicendo che adesso si passa dal sogno al risveglio. Lui è morto ma sta ancora sognando”.

Il testo di quest’articolo non può rendere l’idea del coinvolgimento, dell’empatia che si crea tra noi e Muphasah. Inoltre, la piacevole scoperta del significato profondo dei suoi versi, attraverso una cifra stilistica che mi è sempre stata lontana e che si esprime in un contesto difficile come Palermo, mi regalano la speranza che questa città, sebbene tra mille difficoltà, possa operare, grazie alle nuove generazioni, quel salto da un’integrazione a volte lenta, quasi dormiente, che corrisponde secondo versioni errate al piegamento di una cultura ‘altra’ a quella ‘dominante’, perché della maggior parte dei cittadini, alla multiculturalità. E i brevi passi in Krobo, lingua locale del Ghana, che Muphasah recita alla fine del nostro incontro, mi risuonano come primo comandamento di chi vuole credere che in questo luogo ci sia ancora spazio per il cambiamento:“… è un gioco di cortile e giochiamo senza farci del male, ve lo portiamo, così lo abbracciate e lo tenete, uomini dall’estero verso la nostra strada di ritorno poiché se non dimentichi la tua patria tornerai, tornerai”.

Adesso sono sicuro, il Festival riuscirà. Così è stato.  

 

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