Un percorso creativo, quello dello scultore Salvatore Rizzuti, già docente della Accademia delle Belle Arti di Palermo, tra i più qualificati del nostro tempo. Sculture come racconto mitologico; una ricerca delle radici classiche riversate, con grande sensibilità nel contesto postmoderno
di Aldo Gerbino
Attrae l’accanimento che Costantino Kavafis, – il fragile e tenace poeta greco di Alessandria d’Egitto, – ha posto alla qualità delle parole, al loro intimo ascolto, nello sforzo di coglierne l’armonia silente; ed è così che possiamo leggere – in parallelo – l’innesto surreale consegnato alla scultura in legno, Apologia del silenzio (2002), di Salvatore Rizzuti. Il redigere kavafiano si muove, non tanto sul versante eruditivo, o, stricto sensu, tra camminamenti etimologici, quanto per distillazione di parole opportunamente ricollocate nell’esistenza stessa degli uomini, in un configurare il sottosuolo delle sostanze verbali che tutto reggono, nutrono, vivificano. Quindi, attraverso esse, ogni cosa si fa carne cosciente, sacrale (non è peregrino sottolineare il binomio verbo/carne), e, in tale carne, ecco i fatti, le azioni, gli accadimenti, la storia e la liturgia in attesa del numinoso. Lo stesso ritroviamo nel tremolare delle effigi scultoree, stringhe d’un passato infisse nel nostro essere ‘comune denominatore’ di mobile umanità: sembianze antropiche in cui, parola, scultura, segno, impongono esercizi rammemorativi, affannosi disseppellimenti di radici, per far germogliare e rivivificare i frutti ancora acerbi della contemporaneità.
Leggendo tale catalogo plastico non possiamo che rintracciare dai fondali speculativi di Romano Guardini, captando, proprio dalle sue cose ultime (1940), i suggerimenti sulla perdita, sul senso del lutto semantico. La «perdita di una parola», afferma il filosofo e teologo veronese naturalizzato tedesco, «è molto più grave dell’incomprensione che può nascere durante una conversazione. Si perde una di quelle forme in cui l’uomo esiste. Si oscura uno di quegli indicatori che gli consentono di procedere rettamente. Si spegne una luce, e il suo giorno spirituale si offusca.» La ‘parola’, dunque, si offre coniugata alla ‘forma’, ed è lecito interrogarsi come la dispersione di essa, letta quale valenza protesica dell’anima, predisponga all’ingrigirsi di quelle categorie umane concretate nella lingua, nell’arte. E se con Benjamin ‘forma’ e ‘contenuto’ si sovrappongono, o ancor meglio appaiono complementari nel loro svolgersi l’un dentro l’altro, vi affiora, perentorio, il doloroso spegnimento d’un bagliore spirituale. Accadimento tanto grave in quanto capace di soffocare le possibilità evolutive dell’espansione morale, trascinando, a poco a poco, l’umana sostanza, l’interfaccia alla leopardiana “nostra ignuda natura” contro quell’‘inverno dei sentimenti’ nel modo in cui recita, lucidamente e drammaticamente, la sobria osservazione della Yourcenar.
L’ulivo selvatico, il frassino, il tiglio, il cipresso, sono, per Salvatore Rizzuti, le parole di Guardini, il catalogo lessicale di Kavafis; e ciò lo leggiamo, lo annusiamo in Salvatore, nella sua arcaica formula simbiontica fatta di germinante ibridazione, di assemblaggi, o quando scaviamo con le pupille l’interno cavo di molte sue sculture dalle quali emerge lo spirito legnoso che aggiunge materia alle pulsioni del fare scultura. Ne abbiamo conferma se rimestiamo il brodo colturale dei cangianti fenotipi alimentati dalla linfa organica alle parole, ai legni, alle terre. In tal senso la descrizione del Capnodis, – ctonio e solare coleottero, simile alla bipolarità di Persefone, – fa emergere, nella nettunista visione di Ernst Jünger (l’Anarca scrittore di Heidelberg), quelle pertinenti osservazioni sugli “influssi degli elementi vitali”, come il legno, rivelando il suo fisiologico percorso di “corrispondenza”. Alla “vita del legno”, sottolinea Jünger, corrisponde “la forma a scalpello del corpo”; il robusto Capnodis (si ribadisce in Aus der goldenen Muschel; 1944), – l’insetto scorto nei pressi dell’area nebrodense di Caronìa (annotazione del 25 aprile 1929), – è «un bupreste simile nella forma ad una barca appiattita, nero bronzina con delicate screziature bianche; un animale concepito per vivere sotto un solo più ardente.» È la medesima correlazione che lega Rizzuti alle sue opere, più precisamente alle materie utilizzate dall’artista di Caltabellotta (geologico calco d’una Sicilia archetipica); in particolare legni e terracotta tracimano nel mosaico ammantato dal senso della storia e del mito, in quel restituire centralità, come nel messaggio del californiano Robert Frost, al contenuto originario della parola e del gesto creativo. Un ‘suono’ (qui: lo sfregare delle sgorbie o il ritmo degli scalpelli, il battere del martello) capace, attraverso il marchio d’una classicità figurale, di consegnarsi all’attualità plastica bagnata dalla rimemorazione. Compattezza operativa ed estetica accompagnano quest’intenso e coerente cammino di Rizzuti (si leggano i legni che vanno dal 1991 al 2016: Annunciazione; Omaggio a Piero 3; Respiro; Canto delle sirene; Uranòs e la politezza intensa di Persefone), tanto da favorire quel dialogo ideale con la “solidità” già esposta da Guttuso, in cui il Maestro di Bagheria dichiarava d’essere soggiogato dalla pienezza espressiva di Gustave Courbet. E non son da meno le opere rizzutiane mosse nell’agile pasta delle terrecotte (esempi offerti tra il 1983 e il 2013): dalla plasticità modernista della Donna di pane, alla parafrasi arcaica di Per sempre, dal precipite Icaro alle chiglie laminanti nel viaggio (Il freddo) condensato nella morte (L’ultimo viaggio), in quel ‘tutto’ divenuto progetto di conoscenza. Un ritorno a Kavafis, ad “Itaca”, alla sua lezione fatta propria da Rizzuti e volta a risolcare, silenziosamente, le tiepide acque meridiane.