La gravidanza è un momento speciale per ogni donna. Il corpo materno si prepara ad accogliere un’altra vita. Le difese immunitarie allentano il controllo per permettere alla nuova creatura di essere accolta dall’organismo materno e di non essere aggredita o riconosciuta come qualcosa di estraneo. Proprio in questa fase può, quindi, succedere che al sistema immunitario “sfugga” la proliferazione di qualche cellula patologica, portando talvolta allo sviluppo di un tumore.
La diagnosi
La diagnosi di tumore in gravidanza presenta una incidenza di 1:1000 gravidanze, in particolare i linfomi hanno una incidenza di 1:6000. Il linfoma di Hodgkin, che colpisce tipicamente giovani donne in età fertile, è il più frequente: rappresenta il 6% di tutte le neoplasie in corso di gravidanza e la più comune neoplasia ematologica.
La gestione
La gestione di un linfoma in corso di gravidanza rappresenta sempre una grossa sfida, che ha l’obiettivo di curare al meglio la paziente, limitando al minimo i rischi per il nascituro. L’approccio migliore va stabilito caso per caso in stretta collaborazione con il ginecologo di riferimento, tenendo conto dei sintomi della paziente, dello stadio e dell’epoca gestazionale, oltre che del contesto psicologico, culturale e religioso della famiglia.
La stadiazione
Le indagini necessarie per la stadiazione della malattia dovrebbero limitare il più possibile l’utilizzo di radiazioni. L’ecografia rappresenta la metodica di elezione per valutare il collo e l’addome, mentre una radiografia del torace, schermando adeguatamente l’addome, risulta sicura e permette di valutare la presenza di allargamento del mediastino (la parte di torace compresa tra i due polmoni, segno della presenza di linfonodi voluminosi). Anche la risonanza magnetica senza mezzo di contrasto può essere utilizzata. Metodiche come la TC e la PET andrebbero, invece, evitate durante tutta la gravidanza e prese in considerazione solo in casi eccezionali.
Chemioterapia in gravidanza: quando?
Un trattamento con chemioterapia sistemica nel primo trimestre è purtroppo associato ad alte percentuali di aborto, di morte intrauterina o di insorgenza di malformazioni sistemiche, essendo questo il periodo dell’organogenesi. Se la paziente è poco sintomatica è, quindi, consigliabile attendere un’epoca più avanzata di gravidanza. A partire dal secondo trimestre è, invece, dimostrata la possibilità, se necessario, di iniziare un trattamento chemioterapico, con rischi limitati per il feto. In particolare, è possibile utilizzare nel linfoma di Hodgkin la terapia standard consigliata anche al di fuori della gravidanza, ovvero lo schema ABVD (Adriamicina, Bleomicina, Vinblastina, Dacarbazina). Dato il rischio di complicanze ostetriche (riduzione della crescita intrauterina, rottura delle membrane, parto prematuro), la gravidanza dovrà essere strettamente monitorata, cercando di portare la donna a partorire in sicurezza, se possibile dopo le 35-37 settimane consigliate per un adeguato sviluppo del feto. In ogni caso, tra l’ultima dose di chemioterapia e il parto, dovrebbero passare almeno 2-3 settimane in modo da evitare che quest’ultimo venga effettuato in una situazione di riduzione dei valori di globuli bianchi.
L’allattamento
L’allattamento in corso di chemioterapia viene attualmente sconsigliato mancando studi in merito ai dati tossicologici legati al passaggio di chemioterapia nel latte materno.
Uno studio a lungo termine (durato circa 20 anni) ha seguito 84 neonati nati da madri con neoplasie ematologiche e non sono state riportate anomalie fisiche, neurologiche o psicologiche nel tempo, dimostrando che il trattamento in gravidanza, se ben modulato, può risultare sicuro per il bambino, oltre che efficace per la madre.
* a cura della Dott.ssa Erika Meli – Medico Ematologo
Comitato di Redazione FIL