Alla galleria Studio 71 di via Vincenzo Fuxa 9 una articolata riflessione visuale sul mondo del lavoro, basata sul confronto fra artisti della prima metà del ‘900 ed artisti contemporanei.
di Salvo Ferlito
Il contratto a tempo indeterminato a “tutele crescenti” (vera trovata “neo-schiavista” dell’ineffabile governo “di sinistra” del boy scout Renzi) ricorda da vicino – sia consentita la poco delicata irriverenza – la eventuale guarigione dal tumore. Nel primo caso – col passare del tempo – dovrebbe diminuire la possibilità di esser licenziati, nell’altro – viceversa – dovrebbe aumentare quella di guarire. Mantenimento del lavoro ad uno, due, tre o più anni, e parimenti remissione completa dei sintomi ad uno, due, tre o più anni. In definitiva, però, nessuna effettiva sicurezza di mantenere indeterminatamente il posto di lavoro, così come – purtroppo – nessuna certezza di conseguire la completa guarigione.
Potrà sembrare un paragone crudo ed impietoso, e tuttavia ci pare il più appropriato ai fini della descrizione della condizione di precarietà in cui versa chi oggi accede (o, più precisamente, tenta di accedere) al mondo del lavoro. La precarietà, dunque, l’incertezza sul futuro, l’instabilità, come stato permanente della situazione personale d’ogni singolo lavoratore e come carattere strutturale dell’intero sistema produttivo. Basta, d’altro canto, effettuare una breve analisi delle dinamiche in atto in ambito economico ed industriale – e ciò senza essere dei provetti economisti –, per trarre chiare indicazioni (e nefasti auspici) su come quell’insieme di diritti e guarentigie, acquisiti e difesi dai lavoratori in decenni di lotte e fra mille ostacoli e difficoltà, sia oggigiorno sempre più messo in forse e in discussione, sotto la spinta demolitiva operata senza tregua dai poteri forti della finanza e del capitale, ormai fin troppo consolidati nella loro incontrollabile e onnipotente dimensione transnazionale.
I processi legati alla cosiddetta globalizzazione (i movimenti incontrollati di enormi capitali verso aree geografiche ove gli investimenti producono maggiori rendimenti, la delocalizzazione dei meccanismi produttivi in quei paesi dove è più basso il costo del lavoro, il contestuale spostamento di mano d’opera a basso salario dalle zone depresse del pianeta in direzione di quelle più avanzate e industrializzate, l’abbattimento dei dazi e l’eliminazione dei controlli doganali con conseguente più libera circolazione delle merci) ma anche il progressivo prevalere delle attività finanziarie (con un incremento esponenziale delle rendite parassitarie) sugli investimenti di capitale in attività di tipo industriale e manifatturiero, e ancora la completa sinergia della politica con gli interessi della finanza e del capitale e la contestuale acquiescenza dei sindacati nei confronti di tali derive autoritarie, la progressiva informatizzazione ed automazione di svariate attività industriali (con la inevitabile espulsione dal ciclo produttivo di moltissimi lavoratori), la propagandistica negazione – attraverso un uso capzioso dei media, non a caso tutti nelle mani di politici, industriali e finanzieri – del permanere delle ragioni storiche della lotta di classe (che viceversa, con l’aumentare della disoccupazione e col sempre più dilagante impoverimento della classe media, appare attuale come non mai) sono infatti solo alcuni dei molteplici e complessi fenomeni, più o meno perversi e preoccupanti, che condizionano e contraddistinguono il mondo del lavoro nella contemporaneità. Un panorama francamente deprimente – quello che si ricava da questa breve ricognizione dello stato delle cose – ma per ciò stesso, senza dubbio, in grado di fornire un’ampia gamma di spunti e suggestioni ai fini dell’elaborazione di approfondite analisi e attente riflessioni di natura visuale.
Come già in passato – si pensi alle paradigmatiche opere di Pelizza da Volpedo o a quelle di Morbelli, ma anche a quelle del russo Repin o ad altre di ambito impressionista e post-impressionista, tanto per fare qualche esempio illuminante –, gli artisti sono chiamati ancor oggi a prendere una posizione, ad esprimer delle critiche, a fornire dei giudizi, avendo come obiettivo prioritario lo scandaglio – anche impietoso – dei meccanismi cogenti e restrittivi che imperano in un sistema sempre meno incline al riconoscimento e alla tutela dei diritti personali e sempre più preda dell’arbitrio dettato da interessi spudoratamente famelici e speculativi. Certo, laddove in passato prevalevano toni improntati alla volontà di contrasto dello strapotere del capitale e alla doverosa rivendicazione di tutele e salvaguardie o – nel caso degli artisti engagé, proni ai dettami propagandistici delle dittature – alla stentorea celebrazione dei trionfi delle corporazioni o dei grandi successi della classe operaia , oggigiorno – piuttosto – si riscontra una certa tendenza alla rassegnazione nei confronti della “situazione in atto”, seppur fortemente connotata da un approccio (politico e sociologico) ammantato di pungente ironia ed amarissimo sarcasmo. Il confronto fra opere realizzate nel primo cinquantennio del ‘900 ed opere invece prodotte ad hoc per questa mostra si dimostra – a tal proposito – assolutamente rivelatore e indicativo, confermando come lo “spirito del tempo” sia ormai di tutt’altra pasta e come la sfiducia e il pessimismo la facciano ampiamente da padrone. La visione eroica e virile propria della retorica fascista – rilevabile nella scena di fucina dipinta da Ezio Buscio – o quella altrettanto falsamente rilassata e serena tipica della propaganda stalinista – esemplata dalle contadine di Aleksandr Petrovic Leont’ev –, già negli anni ’50 del secolo trascorso, lasciano il campo ad un approccio assai più veritiero e decisamente meno armonico e pacificato – quello del duro lavoro di bonifica tratteggiato da Biagio Pancino –, a riprova di una mai risolta e sopita questione operaia e più in generale di sempre attive tensioni in atto in ambito lavorativo.
Non stupisce, pertanto, alla luce di quanto detto fin adesso, che gli artisti più giovani, chiamati a esprimersi su quanto sta accadendo nel mondo del lavoro, abbiano abbandonato qualsiasi accento retorico o propagandistico, o più semplicemente e sinceramente qualsivoglia tono di lotta o di contrasto ideologico, per rifugiarsi in un ben più penetrante atteggiamento di irriverente pessimismo. Il lavoratore ideale diviene quindi quello di Philippe Berson, una sorta di via di mezzo fra una macchina funzionante a monetine e una vera e propria “marchetta” pagata a prestazione (e viene a tal proposito alla mente l’ennesima invenzione del “laburista” Renzi e dei suoi degni accoliti, ovvero l’ignobile sistema di “affitto” ad ore dei lavoratori mediante voucher). Ma più in generale, l’attività lavorativa viene vissuta come comunque inane o del tutto improduttiva – l’ostinato lavoratore di Elena Ferrara, novello Sisifo, costretto a replicare all’infinito un gesto senza costrutto – o purtroppo irrimediabilmente connotata da una avvilente ripetitività di natura esistenziale – gli anonimi personaggi di Massimo Saitta, accasciati nell’attesa routinaria del mezzo di trasporto che li conduca al posto di lavoro – o semplicemente limitata ad un agire meccanico e predefinito – come nel caso dell’orgoglioso operaio di Tiziana Viola Massa, incasellato però in un ruolo inevitabilmente coatto e subalterno –. Altrove, invece, è la dimensione alienata e solitaria degli esclusi a prevalere nettamente – nel caso del barbone di Cristiano Guitarrini, emblema della definitiva espulsione dal ciclo produttivo e dalle dinamiche sociali – o quella ormai border line o del tutto patologica di chi forse nel mondo del lavoro non c’è mai davvero entrato – il personaggio isolato e ripiegato su se stesso fantasmaticamente dipinto da Roberto Fontana o quello esplicitamente “pasoliniano” e al limite del suicidio visionariamente impaginato da Simone Mannino –. In altri casi tuttavia è il contesto ad ergersi a simbolo o allegoria di un sistema non più in grado di assolvere correttamente compiti e funzioni – la neo-piranesiana architettura industriale di Vanni Quadrio, vestigia di un apparato produttivo ridotto a fossile di un‘epoca trascorsa, o le desolate classi di Antonio Miccichè, metafora compiuta della inanità di qualsivoglia percorso formativo –.
Su tutto, a dominare, il dio denaro – non a caso la totemica banconota “al cianuro” di Gaetano Costa, venefico ed unico motore dell’economia –, in fondo null’altro che carta straccia, cui sacrificare senza tema l’intera società. La mostra sarà visibile fino al 28 maggio, dal lunedì al sabato, dalle 16,30 alle 19,30.