Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

La collezione di piccoli ritratti “Salvia De Stefani”

La collezione di piccoli ritratti “Salvia De Stefani”: da Guttuso a Topazia Alliata, da Migneco a Bruno Caruso...

di Redazione

“Mostrami in corpo e in anima qual sono”

La collezione di piccoli ritratti “Salvia De Stefani”: da Guttuso a Topazia Alliata,

da Migneco a  Bruno Caruso

 

di  Aldo Gerbino

 

Sublime specchio di veraci detti,

Mostrami in corpo e in anima qual sono: […]

[Vittorio Alfieri, 1749-1803]

Geografia d’una Collezione: l’impatto del segno e del colore

Una geografia, certo non esauriente, della civiltà figurativa siciliana si condensa nella evocativa “Collezione di autoritratti di pittori siciliani, raccolti negli anni Sessanta da Salvatore Salvia De Stefani” e capace, per sua incomprensibile natura, di sprigionare quasi un vento improvviso, pronto a percorrere il Novecento siciliano, avvincendo così, con le sue propaggini, il nostro quotidiano torpore. Un vento iconico nutrito da occhi, lineamenti, sguardi, intessuto d’una fisiognomica compresa nella dimensione del piccolo dipinto, abile a legare una parola all’altra della complessa e individuale azione creativa degli artisti, ignari, forse, di quelle Lettres philosophiques sur la physionomie del 1746, anonima operetta del monaco benedettino Pernetti. Un mosaico pregno di umori, filtrato dalla ‘Collezione Salvia’ e già registrata, per tassonomia di occhio e di anima, nel volume di Rita Cedrini e Bruno Caruso, Al di là dell’immagine (2009). Quale immagine categoriale possiamo trarre da questo puzzle di polimorfe tessere estetiche, nella caleidoscopica scorribanda oscillante per alterni valori e per polimorfe recezioni e sollecitazioni?

Eppure la pupilla geometrica di Topazia Alliata, ben raccolta in una tempera su carta, promana il suo esercizio primario (presto abbandonato) rivolto all’arte figurativa. È un occhio mosso alla compostezza, dotato di un sano equilibrio, e assunto quale dimensione spirituale del proprio essere nel mondo, senza tradire, in virtù della sua vena pragmatica, l’improvvisa urgenza d’un disegno ideale. Al contrario, per Alfonso Amorelli, l’impatto segno/colore genera il suo preciso obiettivo estetico. Egli vuol consegnarci un’immagine leggera (1957), cinematica (pur disposta nella sua naturale bidimensionalità), dotata di cifra ironica (ne è testimonianza la sua pubblicazione del 1970, Il tempo vola), in un dettato, così come affermava l’antropologo Giuseppe Cocchiara (suo amico ed estimatore), in cui si mescolano il pittore e il folklorista. Un maestro, l’Amorelli, che vive in pieno una Sicilia attraversata da meditazioni e slanci. Non a caso dal 1927 al 1930 (tempo che diventa qui elettivo sostrato della ‘collezione’) la situazione artistica siciliana muta; sottolineerà, nel 1932, il critico Giuseppe Pensabene: «sotto l’unica insegna del Novecento si affermarono giovani di tendenze diverse, ma tutti con una impronta di modernità: Pippo Rizzo, Manlio Giarrizzo, Alfonso Amorelli, Leo Castro, Vittorio Corona, Alberto Bevilacqua, Mario Mimì Lazzaro». Il taglio espressionistico ora si addensa di colpo in Lina Anzaloni (1958), un’accurata docente di ‘Figura’, e, con decisione, in Rito Arcuno attraverso la sua fuga un po’ scomposta da retaggi tardo-ottocenteschi, ancora presenti nel laboratorio pittorico e plastico del primo Novecento siciliano. Si ritrova in questo figlio d’arte, a detta di Franco Grasso, «la sua educazione figurativa» (il padre fu il cesellatore Luigi, allievo del Gemito), che sembra alimentare, pur in maniera rudimentale, una «spontaneità quasi primitiva» (1968).

 

L’esuberanza della realtà, le suggestioni della modernità 

Ma compostezza ed equilibrio compositivo si identificano subito nella decisa premonizione del piccolo olio su compensato del 1954 realizzato da Ugo Attardi (ne recuperiamo un’analogia espressiva nel marchio fotografico del volume, di qualche anno più tardi, “Giovani Artisti Italiani”). Un artista che, dopo le esperienze legate a “Forma 1”, sembra intridersi, con maggiore e consapevole impegno, nella pasta pittorica, nel suo miele più denso, in una sua qualità più dichiarata e che poi, in un prossimo futuro della sua poetica, si volge a forme ricolme di carnalità, poi a poco a poco rastremata o levigata in essenze drammatiche, resa ipertrofica in emblemi sensuali e distruttivi, crudeli e pur colmi di pietas.

Nel 1968 Carlo Levi sottolinea per Attardi come la violenza affiori «in tutti i piani, in tutte le accezioni, dirette o indirette (…), violenza come la ragione negativa del mondo». L’occhio attardiano s’impone, dunque, per la sua decisa capacità di invocare, o quanto meno presentire, il futuro del suo percorso, pronto ad esplodere da quel ricchissimo baccello che lo anima. Per altre compostezze ora si muovono le linee incise nell’esemplare unico (1959, un’incisione su cartone) elaborato da Giacomo Baragli, immagine volta in assorta pensosità, in mesta estensione. Così è la fissità a deporsi nel volto di Piero Bevilacqua, artista sollecitato da una raffinata disposizione ai motivi del ‘decoro’, qui attratto da influssi novecenteschi pienamente coinvolti in un movimento unitario. Una compostezza espunta dal ritratto offerto da Pippo Bonanno (1957), in quell’indugio tra atmosfere tonali, elaborato, per tracce espressive, da un assunto figurativo intimo e riflessivo e in una «affermazione di libertà», notava Leonardo Sciascia nel 1965, nei confronti della ‘tradizione’. Di sagace impatto emotivo si mostra l’opera del 1958 di Totò Bonanno, sia per l’intenso cromatismo a larghe scaglie, sia nella scelta d’una postura basculante tra assetto bidimensionale e approccio postcubista, agitata in un insieme di movimenti aspri e caldi. Artista plurimo, Totò Bonanno, abile nel disegno, si mostra impavido per quella sua capacità di comunicare il drappo della visione attraverso quelle metafore insite nella natura e nell’ambiente urbano. E se Amalia Brusca ci rilascia il suo essere somatico e spirituale in una naiveté semplice e amabile, ecco la drammaticità quasi baconiana di Giorgio Carpintieri (1957), il suo impegno in corpo e anima, dramma e pensiero, disposti nell’azione gestuale di tagli resi necessari sul viso scarno e dolente.

Con Bruno Caruso l’immagine eccentrica viene deposta su di un piano ligneo (1955), in una commistione cromatica da cui emerge la struttura del disegno, il cuore antico della parola, l’esercizio fascinante di un memento mediato dai numeri. Progetto intellettuale accolto nell’alveo di quelle tensioni carusiane tese alle esperienze culturali ed estetiche delle avanguardie storiche, particolarmente alle poetiche del divisionismo, della Secessione, a quella agilità grafica propria d’un Grotz, al fine di sublimare le tracce acide e fastose della realtà.

Torneremo sull’argomento che merita un ulteriore approfondimento

 

 

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