Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

La crisi del teatro in Sicilia: uno sguardo dalla frontiera

di Redazione

Excursus sulle sorti del teatro siciliano con Francesca Vaccaro: attrice e regista che, da oltre dieci anni, conduce a Palermo, in  autonomia, un laboratorio di teatro alternativo

 

Di Fabio Vento 

Non è un momento florido per il teatro in Sicilia. Le platee si assottigliano ogni giorno di più, mentre lo stesso ambiente teatrale vive una tensione latente. Continuano in tutto il territorio le esperienze dei teatri occupati: giovani artisti chiedono che si “volti pagina” in materia di politica culturale, rivendicando spazi per la sperimentazione e opportunità – finora negate – di visibilità. Contemporaneamente, i teatri stabili scricchiolano sotto la consapevolezza che uno svecchiamento s’impone, e in tempi brevi. Della crisi del teatro in Sicilia, come istituzione culturale e come pratica artistica, parliamo con Francesca Vaccaro: attrice e regista, da oltre dieci anni conduce a Palermo, in  autonomia, un laboratorio di teatro “alternativo”. 

Chi è Francesca Vaccaro, quale la sua formazione e il suo percorso nel teatro? 

Sono nata 40 anni fa a Palermo e il mio primo contatto con il teatro è stato sui banchi di scuola: frequentavo il liceo classico e fui da subito attratta dai classici e dal teatro greco. Mi colpì in particolare il fatto che, in epoca classica, lo spettacolo teatrale fosse un’esperienza popolare, aperta a tutta la cittadinanza: una vera e propria liturgia che della comunità plasmava i codici e il senso profondo. La “scintilla” scattò quando la mia classe iniziò a lavorare alla messa in scena della Medea di Euripide. Fui affascinata dalla figura della protagonista, che uccide i propri figli per vendicarsi del suo amato. Era qualcosa che nella vita non avrei mai fatto, al contempo però desideravo “essere lei” per vivere la forza e la passione del suo gesto. Intuii che il teatro avrebbe potuto permettermi di essere “altro da me”, di interpretare personaggi e situazioni lontane dal mio quotidiano. 

Subito dopo il liceo feci un provino con Umberto Cantone per le selezioni annuali al Teatro Biondo: non lo superai e questo mi provocò una crisi, pensai di non essere “adatta” al percorso che desideravo intraprendere. Iniziai la mia ricerca di vita: mi iscrissi in Filosofia proprio nel periodo – l’inizio degli anni ’90 – in cui si animava la storica occupazione “Pantera”. Frequentai alcuni seminari e scoprii Jerzy Grotowski e la sua concezione di teatro. Un teatro che non era  interpretazione o recitazione, orientata alla messa in scena di uno spettacolo, ma educazione alla vita e modalità di esistenza. Per me fu una illuminazione. Feci delle ricerche e in breve tempo mi resi conto che fuori dalla mia Palermo esistevano tante altre realtà, tante correnti di pensiero che riportavano all’idea di un teatro popolare, radicato nell’umano e nel quotidiano, aperto a tutti. Decisi di partire e pochi mesi dopo approdai al Dams di Bologna. Una realtà molto aperta e stimolante, strettamente interconnessa alle esperienze teatrali della città, anche quelle più sperimentali. Proprio in quel periodo si svolgevano dei laboratori del Living Theatre, la nota compagnia americana. Trovai qualcosa che si avvicinava alla mia ricerca, un teatro che non voleva erudire o distrarre, ma anzi “scovare l’arte” nel vissuto e nel quotidiano di ogni individuo. Una vera e propria denuncia contro quell’accademia che pretendeva di delimitare, culturalmente e socialmente, i confini dell’arte. Seguii i loro laboratori per due o tre anni e compresi che era questo che volevo fare e, soprattutto, che ero capace di farlo. Forte di questa consapevolezza, iniziai una formazione da autodidatta con corsi e apprendistato di ogni genere. 

A un certo punto degli amici mi suggerirono che sarebbe stato interessante portare a Palermo ciò che avevo appreso a Bologna. Accolsi questa sfida e nel 2003 iniziai a proporre un laboratorio, frutto delle mie personali ricerche. La risposta è stata davvero entusiastica, motivo per cui ancora oggi seguito nel mio progetto, nonostante le difficoltà e la mancanza di sostegno pubblico. Mi definisco allieva di tanti maestri, ma adesso, nella mia pratica, provo ad essere la maestra di me stessa. 

Il racconto della tua esperienza rivela, neanche troppo fra le righe, un rifiuto del teatro istituzionale, ritenuto troppo accademico e lontano dal vissuto profondo, dalla vita reale degli individui. Può essere questa una chiave di lettura della disaffezione del pubblico, in Sicilia e non soltanto, verso l’offerta teatrale? 

Sicuramente. Un certo tipo di teatro insegna valori come capacità critica e autonomia di pensiero. Valori che oggi stanno morendo, surclassati da un’idea di formazione teatrale come fabbrica che ogni anno produce una “quota” di attori, tutti uguali, tutti istruiti a recitare allo stesso modo. Oggi le accademie insegnano tecniche per la messa in scena di spettacoli, e, come diceva Peppino De Filippo, «con la tecnica non si fa il teatro, si fa il teatro se si ha fantasia». 

Fantasia e creatività: sono queste le basi su cui, a mio avviso, si può davvero costruire la figura dell’artista. Ed è questo ciò che cerco di fare: aiutare altre persone a “rompere” le regole imposte per ritrovare l’emozione della propria esistenza. In questo senso ritengo che l’esperienza teatrale possa e debba essere aperta a tutti, indifferentemente: al giovane ventenne che non sa ancora cosa farà nella sua vita, al pensionato che tanto ha ancora da raccontare, alla casalinga che in cuor suo ha sempre voluto uscire dalle mura domestiche. Tutti possono praticare il teatro perché questo è prima di tutto un modo di vivere, è ricerca di esistenza. E la ricerca è la condizione dell’essere umano. 

Finché il lavoro in scena continuerà ad essere lontano dall’umano, dal vero, il pubblico continuerà a percepire una distanza e si indirizzerà ad altro. Ne perderà il teatro non soltanto come istituzione, ma anche come presidio culturale. E’ un problema generale dell’arte oltre che un problema non specificamente legato alla realtà siciliana. 

La possibilità di promuovere, nell’offerta come nella formazione, un teatro “altro” rispetto all’accademia passa anche dalle politiche culturali. Dalle scelte pubbliche in materia di direzioni artistiche, finanziamenti, promozione e comunicazione della cultura. Come vedi in questo senso la situazione siciliana e palermitana in particolare? 

A Palermo, a differenza che in altre città, le sorti del teatro sono rette da una leadership salottiera che ne detiene il monopolio, tanto come istituzione quanto come pratica artistica. Fuori da questo cerchio, il deserto. Se riesci ad entrare in una delle stanze di questo “palazzo del potere”, allora diventi una realtà da rispettare. Ma se per inclinazione personale o per scelta ideologica decidi di seguire un percorso alternativo, allora non avrai credibilità a Palermo. La storia lo racconta, anche con grandi nomi che grandi sono diventati nel momento in cui sono espatriati. In altre città, come Bologna, le realtà teatrali istituzionali e quelle “di frontiera” hanno pari dignità, per cui un giovane può scegliere liberamente quale percorso intraprendere. 

C’è da dire che negli ultimi anni tante piccole realtà “dal basso” stanno prendendo campo; ma il prezzo da pagare è ben alto. Com’è sempre stato, chi sceglie di intraprendere un percorso non tradizionale deve prepararsi ad una strada in salita e nella direzione del sacrificio. Molte persone come me si trovano a costruire il proprio teatro e la propria scuola in solitudine, autofinanziandosi. Forti soltanto del sostegno di chi crede nel progetto. 

Politiche più “aperte”, specie nei confronti di chi rifiuta l’accademia, stanno al cuore delle richieste dei tanti giovani che, negli ultimi anni, hanno dato vita ai teatri occupati. In Sicilia come altrove. A tuo modo di vedere, queste esperienze possono essere un reale propulsore di cambiamento sociale? 

Tutte quelle manifestazioni che provocano “disagio” all’interno di uno status quo sono ben accette, in special modo se sono promosse e sostenute da giovani. E’ un processo necessario: se inizia a non accadere diventa pericoloso, rischia di generarsi un congelamento, una paralisi. Quindi, a prescindere dal fatto che io possa o meno condividere le specifiche piattaforme, dal punto di vista ideologico non posso che sostenere questi movimenti. Perché sono tentativi di crescere, di cambiare, di lottare. E queste tre parole stanno anch’esse morendo. Quindi ben venga che ci siano dei piccoli focolai, anche se poi si spengono. D’altro canto io sono uno di questi focolai e non intendo spegnermi.

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