Che il caso non esista lo dimostrano certe vite, lungo il cui percorso sembra accadano eventi più o meno fortunati che, osservati bene con uno sguardo altro, si compongono karmicamente. Fili armonici che compongono quella sinfonia che, anche attraverso la fotografia, dà forma al proprio assoluto.
Lo dimostra la vita di Francesco D’Alleo, fotografo, musicista, ma anche tanto altro, una personalità sprizzante quell’energia che non hai bisogno di spiegare perché la percepisci, ti arriva, colpisce la tua parte più profonda e ti invita a guardare con l’ordine cosmico che merita la propria vita. Non a caso il buddismo fa parte della sua vita sicuramente sin dal giorno della sua venuta al mondo, ma che non è facile capire nell’età della coscienza inconsapevole.
«Mi piace cominciare a narrare a partire dalla fotografia – racconta D’Alleo, che incontriamo nel suo studio fotografico, uno spazio che gli donò il padre per consentirgli di liberare e dare corpo a una delle sue vite creative – ma perché il percorso è proseguito al contrario rispetto a quello che fanno tutti coloro i quali studiano fotografia.
Comincio a fotografare giovanissimo, tra i 15 e 18 anni, quando i miei genitori mi regalano una Olympus M10 con la quale comincio ad andare in giro. Stiamo parlando del periodo della pellicola in bianco e nero, quella che prediligo per le mie personali narrazioni, ma perché racconta la realtà senza la poesia del colore. Per certi versi il bianco e nero ti facilita nel far vedere, nel tirare fuori quel che sta dietro la corteccia».
Dall’Olympus alla Nikon, una FM2, il passo è breve
Per me era una macchina eccezionale, l’avevano i miei amici, ma non avevo mai osato chiederla ai miei genitori. Però, non mi bastava. Decido, così, di acquistare un ingranditore che mi consente di stampare, la vera palestra di un fotografo. Quando commetti degli errori di esposizione e vuoi fare uscire dalle alte luci un particolare, immergi le dita negli acidi e le fai strisciare sulla carta per fare attrito e tirare fuori un particolare che magari non può uscire perché in quel punto è bucato.
La fotografia è anche tutto questo, è come utilizzare la latitudine di posa della pellicola, significa capacità di lettura tra le alte e le basse luci dove il nero è nero profondo. Sto parlando di tecnica che mi è servita profondamente per capire che cosa significa scattare, con la consapevolezza di tempi, diaframmi e ISO. Nonostante l’evoluzione della tecnologia mi abbia fatto nel tempo passare al digitale, quella nostalgia di tempi lenti e riflessivi mi ha riportato all’analogico con una Laica M6 che continuo a utilizzare adesso per i miei reportage.
Quali sono stati i grandi della fotografia ai quali ha fatto riferimento per la sua formazione?
Sono sempre stato da sempre un grandissimo amante di Henry Cartier Bresson, il re del reportage, ma amo anche Robert Doisneau per tutta la poesia che ha saputo dare a questo genere di fotografia. Potrei parlare per giorni anche di Robert Capa e di Sebastião Salgado, i più grandi fotografi del Novecento. Tutti dediti al bianco e nero, tutti lavorano nel mio stesso modo.
Da quel momento, si va delineando in me il concetto di reporter inteso come foto rubata, come foto di narrazione di cose e persone. Una volta che mi sono messo a studiarli, ho capito che dovevo aggiustare alcune cose nel mio modo di fotografare, in loro ho ritrovato la mia naturale idea della composizione.
Una strada che sembra ben tracciata…
In parte, ma non del tutto. Mentre la mia vita personale si arricchisce di una figlia, comincio a lavorare per un mio amico che si occupava principalmente di matrimoni. Io gli montavo i video, ma scattavo anche alcune fotografie sempre con il mio personale taglio da reporter, foto rubate che piacevano molto. Questo mi fa prendere coscienza del fatto che ero nelle condizioni di trasformare questa mia passione in professione e, da allora, non mi fermo più.
Eravamo tra la fine degli anni Novanta e i primi del 2000, facevo anche l’istruttore subacqueo al Tavolara Diving Center, in Sardegna, il cui proprietario mi mise in contatto con un’agenzia che vendeva foto, eravamo ancora nell’era delle diapositive e del cartaceo, per riviste come Viaggi, Gulliver, Travel. Credo sempre più in me e si apre anche la porta di un altro mondo, quello del Food, attraverso la conoscenza di diversi chef. Ho, per esempio, lavorato per un’azienda che voleva pubblicizzare il caviale di lumaca, palline di dimensione millesimale, sferiche, finger food ad hovc. Sarei dovuto andare anche in Giappone, ma non ho mai capito perchè non è stato più possibile.
Mi piace anche ricordare il catalogo sull’oggettistica e sui cadeau che accoglievano gli ospiti di un albergo a cinque stelle. Lavoro che ha dato loro l’opportunità di aumentare il fatturato del 60%.
Sono anche gli anni in cui cominciano a svilupparsi i progetti personali
Due quelli più importanti, “Naked Spirit” e “The Colours of the soul”. Il primo voleva indurre a chiederci qual è la vera natura di tutti i fenomeni.
Tra i corpi, le piante e la materia inanimata, le distanze si azzerano, le analogie si rincorrono e la narrazione diviene il susseguirsi di paesaggi visionari, di luoghi reconditi e mistici. Il racconto di un’essenza unica e meravigliosa.
Il secondo progetto, impreziosito dai 160 ritratti acquerellati da Eleonora Reina, voleva palesare la dimensione che sta al di là di ogni differenza apparente, al di sopra delle identità di genere, di cultura, di fede religiosa, di appartenenza politica o sociale. Il messaggio che porta è che “tutto è uno e in ognuno è il tutto”: siamo luce, siamo vibrazione, siamo colore.
Si è divertito anche a inventare un genere personale di fotografia…
Quello con la luce di una candela che dà risalto a determinati dettagli. La forza di questo linguaggio è emersa in una particolare occasione, la mostra “Ex Tenebris Lux” di Emanuele India, organizzata ,ella sede della Fondazione Federico II, della quale sono stato il fotografo ufficiale.
India è un rilegatore d’arte e il suo lavoro parte dalla punzonatura dei libri antichi, quelli del 1200. In questa occasione ha utilizzato una tecnica con cui ha creato dei piatti molto particolari, diciamo pure dei mandala di legno ricoperti di cuoio, appunto punzonati a fuoco. In ogni fotografia c’è il tema del passaggio dal buio alla luce e, questo lavoro, segna il mio immergermi nello still life.
A un certo punto, però, arriva la musica
A dire il vero sono musicista da quando avevo 13 anni, quando comincio a suonare la chitarra classica regalatami dai miei genitori. Le lezioni, però, non facevano per me, quindi a un certo punto lascio il sesto anno di conservatorio e mi metto a fare il chitarrista da spiaggia insieme ai miei amici.
Un momento difficile dato dalla fine di un amore ed ecco che, per caso, mi trovo in un garage con amici, tra cui Giuseppe Montalbano, l’inventore dei “Jumpin’up” e lì mi innamoro del basso elettrico del padre batterista che stava posato in un angolo.
Appena lo prendo in mano, sento dentro di me una sorta di stravolgimento. Non mi stupiva e non mi stupisce mai quando capita perché sono una persona che vive tutto a livello emozionale. Diversamente, non mi avventuro in niente. Decido di acquistare subito un basso con i soldi guadagnati con il servizio civile e trascorro tutta l’estate a suonare con musicisti già navigati. Tra le immersioni subacquee e la musica, una vita meravigliosa.
Ma come tutti gli amori più belli, anche questo arriva al capolinea
Si era esaurita la fiamma del pathos. Così, alla fine, decido di comprare un contrabbasso elettrico, lo strumento che mi accompagna ancora oggi. Riesco a tirare fuori il mio potenziale assoluto e ricevo grandi consensi, credendo molti che lo suonassi da tempo. Neanche un mese era trascorso da quando lo avevo tenuto tra le braccia per la prima volta.
Alla fine mio padre, con il quale ho sempre avuto un rapporto molto contrastato perché pensava che volessi solo divertirmi, vede su Internet alcune mie registrazioni e mi dice: «Ho capito qual è il tuo valore per cui voglio darti il meglio», e mi regala un contrabbasso costruito da un liutaio di Ferrara che forniva la Filarmonica di Vienna e ne aveva venduto uno anche al contrabbassista di Pat Metheny. Emozioni a fiori di pelle. Vado a ritirare il contrabbasso il 21 giugno del 2021 e, ad agosto, mio padre ci lascia, quindi chiudiamo il cerchio riappacificandoci. Si conclude tutta la belligeranza: finisce la sua missione nei miei confronti e la mia nei suoi. Se ne va sul Picco dell’Aquila e torna in mezzo a tutti i Buddha delle 10 Direzioni.
Fondamentale il suo incontro con la pratica buddista
Incontro che avviene in maniera mistica nel 2002, dopo avere visto il film sull’autobiografia di Tina Turner, dove lei racconta una vita devastata dal marito che ne voleva possedere anima e corpo. Era un momento difficile per me, mi stavo separando dalla madre di mia figlia e, per caso, ma quando mai si può parlare di caso, sento una ragazza con la quale nuotavo in piscina parlare con un’amica di buddismo.
Prendo la sedia, mi accosto e mi faccio fare sciakubuku, cioè il semplice spiegare la pratica, e da allora non ho avuto più dubbi. A maggior ragione dopo che mi invita a casa sua, mi siedo davanti al Gohonzon, apre il butsudan e io esco immediatamente dal mio corpo per entrare dentro il myoho di Nam Myoho Renge Kyo. Una sensazione di premorte, come se fossi uscito dal mio corpo, ma con una velocità e una forza tali da sentirmi male fisicamente. Qualcosa di così potente da farmi capire all’istante che era la mia strada mistica.
Cosa le ha dato la pratica e come si associa al mondo della fotografia?
Mi ha completamente trasformato la vita, dandomi una prospettiva totalmente diversa nel vedere le cose. Grazie alla pratica vado in giro e fotografo sentendo la mia relazione con tutta la gente che sta attorno e davanti a me. Avverto una profonda relazione di fili, vedo il Buddha che si muove, viaggia, lo trovo anche in quella persona che cerca di frugare nella borsetta della signora. Prima di incontrare il buddismo ero sempre in collera, avrei voluto premere un pulsante e fare scomparire la Sicilia con tutti i siciliani.
Oggi, la pratica buddista, mi fa riempire di compassione, per cui riesco a sentire la bellezza. Come quella che esce fuori in “Naked Spirit”, nel cui nudo non vedo solo corpi potenzialmente attraenti anche dal punto di vista maschile, ma nella ruga trovo l’essenza della vita. Un progetto nel quale, dai 23 ai 65 anni, corre in parallelo con la natura. Dentro di me questa vena artistica che ho trovato nella fotografia c’è sempre stata, ma prima era sopita, tappata, omessa, mentre oggi è uscita con tutta la sua luce. Energia che oggi continuo a trovare sia nella musica che nella fotografia; due forme espressive che, non ci sono dubbi, procedono di pari passo.
Tutte le foto sono di Francesco D’Alleo
Una risposta
… Che dire da prendere come esempio, la vita ci porta a tante strade e leggo che Francesco Dalleo dal punto di vista della sua prospettiva ispira un modo che un essere umano puo prendere in mano la propria vita sia nell’ambito artistico che in altri campi, dopo di che possiamo dire che la vita di è un grande palcoscenico… Il punto fondamentale è come si sta quando si spengono i riflettori e vedo che Francesco sotto questo punto di vista è nella sdrada buona lui racconta la sua esperienza con il buddismo in qualità di artista e da cio si puo comprendere dai suoi scenari quanto gli ha dato il buddismo, da qua colgo il suo spirito quello di mettersi sempre in gioco… Non mi resta che dire bravo Francesco sei un esempio come persona e come artista.