Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

La liquidazione dello Stato e la deriva autoritaria

Le logiche del libero mercato e la globalizzazione hanno divorato lo Stato, ma anche la sostenibilità sociale, costringendo ad uno scenario di tutti contro tutti. Gli altri sono solo nemici, e sono dovunque. Dobbiamo armarci e difenderci e, per chi protesta, il carcere

di Victor Matteucci

Le ragioni di fondo, detto in modo sommario, della fine del lavoro produttivo e delle garanzie sociali, in Italia e in Occidente, sono dovute alla tendenziale riduzione del margine di profitto delle imprese per i costi e gli investimenti. Il neoliberismo e la globalizzazione sono le soluzioni tradizionali a questa, come a tutte le crisi, in modo da favorire privatizzazioni di imprese e di patrimoni strategici dello Stato, fino alla delocalizzazione della produzione in Paesi più compiacenti.

Quando tutto questo non è possibile, o non dovesse rivelarsi sufficiente, si pensa bene di trasferire, il capitale privato, dagli investimenti produttivi alla rendita finanziaria. In alternativa, o contemporaneamente, si ricorre al capitale illegale, favorendo riciclaggio e investimenti, in particolare nei servizi, nella produzione di energie rinnovabili e nei fondi fiduciari.

Le ragioni del capitale privato

Dal momento che l’etica imprenditoriale è una contraddizione in termini, qualora questa economia privata si trovasse ad agire senza uno Stato in grado di emanare norme di difesa sociale e di tutela dei diritti degne di questo nome, è inevitabile che, per la natura predatoria del capitalismo, si producano squilibri economici devastanti e ingiustizie sociali inaccettabili. Tutto ciò è naturale, appunto, direbbero i liberisti, riferendosi alla necessaria selezione naturale darwiniana per l’evoluzione. Più brutalmente: Ognuno con sé e Dio con tutti.

Privatizzare, arretrare e chiudere. La trasformazione finanziaria

D’altro canto, la privatizzazione dei servizi, in atto da anni, come Poste, Acqua, Luce, Gas, Telecomunicazioni, Sanità, Scuola, Autostrade, Ferrovie, ecc., per trasformare queste agenzie di servizio pubblico in imprese private for profit, va nella direzione di uno smantellamento complessivo dello Stato sociale.

Lo sviluppo successivo sarà, sempre nella logica di mercato, una selezione-acquisizione da parte delle imprese più grandi di quelle più piccole, fino a realizzare gruppi multinazionali e monopolistici. Quello finale sarà Il trasferimento di queste imprese nel sistema finanziario.

Un esempio emblematico di capitalismo produttivo, che aveva risvolti sociali e, per questo, sostenuto in ogni modo per decenni da fondi pubblici che, in seguito, è divenuto multinazionale e, infine, finanziario, lo possiamo desumere da quella che fu la Fiat e che oggi è Stellantis: “Il Ceo di Stellantis, Carlos Tavares, che nel 2023 ha guadagnato 23,5 miliardi di euro, ha annunciato che i risultati semestrali del gruppo sono stati deludenti. L’utile netto, pari a 5,6 miliardi di euro, si è ridotto del 48% rispetto all’anno precedente: dunque, servono azioni correttive. Facile. Cassa integrazione in vari stabilimenti, a cominciare da quelli italiani, ferie allungate, dismissione di brand e “rimodulazione” delle sedi produttive verso quelle dove la manodopera costa meno. Si tratta di misure il cui primo obiettivo è quello di far riprendere subito, nel momento stesso dell’annuncio, il valore del titolo Stellantis a tutela dei grandi azionisti e della famiglia Agnelli-Elkann. È solo il caso di ricordare, a riguardo, che nel primo semestre 2024, quello prima citato con il calo degli utili, Stellantis ha distribuito agli azionisti 6,7 miliardi di euro, fra dividendi e buy back” (Alessandro Volpi).

Le conseguenze sociali del mondo merce

Se l’unico criterio guida di una società è il profitto, o comunque l’idea che tutto sia merce, è inevitabile ragionare su cosa conviene e cosa no. Perciò sarà inevitabile dover spopolare i piccoli centri rurali delle aree interne con poche migliaia di abitanti che sono antieconomici. E sarà relativamente semplice, sottraendo servizi (sanità, scuola, credito) e opportunità, persuadere coloro che vi abitano a trasferirsi in città, predisponendo, per loro, enormi periferie in prossimità delle città europee e interminabili palazzi multipiano dove stipare milioni di individui in modo da concentrare, con loro, la domanda di consumo. Proprio come, nell’epoca industriale, si spingevano i contadini verso il triangolo industriale, dove si doveva concentrare il lavoro in enormi e desolanti città-fabbriche. Infatti, se nel Novecento esisteva solo chi lavorava e produceva, oggi esiste solo chi compra e consuma.

Se, infine, aggiungiamo a questa deportazione, il degrado urbanistico di queste periferie, abbiamo un quadro chiaro del degrado sociale che deliberatamente si produce, con le conseguenze che conosciamo.

Fine dello Stato sociale

Lo Stato, il capitale pubblico, non è tenuto, né lo vorrebbe, e tantomeno potrebbe, opporsi al progresso e allo sviluppo, che altro non è, se non, progresso e sviluppo delle tecniche di sfruttamento per il profitto (questa è la frase completa). Lo Stato ha un’altra funzione, vitale per il capitalismo privato: quella di fornire un riconoscimento legale al mercato, con norme e procedure che evitino il caos e la deriva selvaggia e che, quindi, realizzi un ambito condiviso di regole, in modo che si garantisca la proprietà privata e la legittimità del capitale.  Tuttavia, avrebbe, almeno nelle interpretazioni keynesiane dello sviluppo, anche una ulteriore funzione di correzione e di intervento rispetto all’economia privata e al mercato. Non per generosità, naturalmente, ma sempre per garantire la sostenibilità e una maggiore efficacia del modo di produzione capitalistico.

Naturalmente, uno Stato tanto più è credibile ed autorevole, tanto più risulta democratico (e viceversa); tanto più riesce a stabilire una ampia condivisione delle politiche, tanto più potrà definire un ambiente sociale positivo entro cui garantire un costante sviluppo economico privato.

Questa necessità dello Stato di risultare credibile, come condizione inevitabile dello sviluppo, ha spesso prodotto un equivoco. Molti, soprattutto nella sinistra, si sono persuasi del fatto che lo Stato fosse neutro e addirittura che fosse anche il loro Stato (guai a sottrarre loro questo mito, spesso alimentato dalla Resistenza e da una Costituzione illuminata, tuttavia, da sempre, lettera morta).

In ogni caso, lasciando da parte le banali illusioni, e le buone o le cattive intenzioni, stando, invece, alle semplici enunciazioni, lo Stato dovrebbe garantire servizi e sostenibilità, anche (e soprattutto) laddove non vi fosse un ritorno di utili. Per esempio, nel garantire a tutti un equo diritto di cittadinanza, magari con politiche di effettiva coesione tra nord e sud, collegando in modo adeguato le aree rurali alle aree urbane, garantendo il diritto alla salute anche alle fasce sociali più povere, assicurando una adeguata ed equa formazione scolastica pubblica, ecc. Ma, naturalmente, uno Stato che volesse, ragionando per assurdo e ipotizzando che vi sia questa volontà, garantire una tale redistribuzione di risorse per i servizi, dovrebbe poter disporre di queste risorse, dal gettito fiscale, o dal rendimento di imprese pubbliche strategiche.

In una condizione, come quella dello Stato italiano, in cui il debito pubblico è al 145% e l’evasione fiscale è al 18,3 % (solo nel 2021 l’evasione delle imposte ammontava a 73,2 miliardi di euro, quella dei contributi a 10,4 miliardi, mentre negli ultimi dieci anni le imposte evase sono state pari a 932,3 miliardi di euro) queste entrate mancano, i disservizi aumentano e, dunque, l’erogazione e la gestione dei servizi diventa sempre più scadente soprattutto nelle aree già depresse, perciò lo Stato svende e arretra, lasciando campo aperto al capitale privato, sia legale che illegale.

Ma, e torniamo alla tesi iniziale, se viene a mancare lo Stato come garanzia sociale e dei diritti, che, almeno, è chiamato ad attenuare gli effetti delle logiche di mercato, è chiaro che tutto si riduce a merce e, su questa base, ha prospettive di vita solo chi, e cosa, si vuole, e si può vendere, selezionando, con questo criterio di idoneità, uomini, donne, città, lavoro, prodotti e servizi.

L’omologazione commerciale

E non finisce qui. Una tale situazione produce un’altra conseguenza. L’esigenza di dover risultare funzionali alle logiche di mercato costringe tutti a un progressivo conformismo, tale da rendere ognuno sempre più disponibile e  compiacente. Il che, a sua volta, produce una sorta di pensiero unico dal dominio incontrastato che, inizialmente è, appunto, sollecitato dal mercato, con mode, merci e stili di vita, ma che, in seguito, è destinato ad assumere un carattere politico e culturale.

Il conformismo culturale

Il rischio autoritario (e/o totalitario), dunque, non si verifica qui per imposizione militare o politica, non per una volontà poliziesca e repressiva, dall’alto, ma, al contrario, essa viene stimolata dal basso. Parte dalla necessità, che ognuno di noi riconosce e accetta di voler stare dalla parte giusta della storia, quella dominante, adeguandosi e conformandosi, pur di poter avere più vantaggi, maggiori possibilità di inclusione e più opportunità di successo per la propria vita privata e professionale.

La prospettiva autoritaria attuale non si verificherà, come è stato nel Novecento, in divisa militare, ma con abiti civili e in giacca e cravatta (al limite in doppio petto e con tessuto gessato, se proprio si vorrà fare una concessione al retaggio storico).

Il dissenso residuale

In questa generale convergenza di “interessi moderati e ragionevoli” ispirati al buon senso, in cui ognuno non fa altro che la sua parte conformista per garantire se stesso, non può esserci il dissenso, se non in modo marginale, e, meno che mai, un dissenso radicale. Ma non perché qualcuno lo vieti, semplicemente perchè, in un mondo mercato, non è utile. Inoltre, dissentire potrebbe essere, oltre che inutile, dannoso. Si tratta solo di buon senso pratico. Ne consegue che, chi dovesse dissentire, sarebbe solo privo di buon senso (la declinazione di questa mancanza di buon senso è ampia). L’innovazione tecnologica e la globalizzazione, infine, hanno ulteriormente chiuso ogni altra possibilità anticonformista, sempre che si voglia essere connessi e avere accesso.

La prospettiva autoritaria

Ma è solo dopo che si è affermata questa ragione di mercato, solo dopo questo sviluppo tecnologico con effetti speciali, che arriva la sintesi politica, che non fa altro che prendere atto delle tendenze in atto per costruire il consenso sulla base degli effetti prodotti in una società fragilizzata dalle dinamiche neoliberiste e della globalizzazione. Una società in questa condizione instabile, infatti, non può che domandare sicurezza, difesa e protezione. Perciò: governo stabile, premierato, semplificazione delle procedure burocratiche, autonomia differenziata e made in Italy. Se si introduce il numero chiuso, se il diktat è “chi è dentro, è dentro, chi è fuori, è fuori”, è evidente che ci sarà la calca per entrare. Istintivamente nessuno vorrà essere escluso.

I nemici alle porte e fuori le mura

In questo modo il cerchio si chiude e il ponte levatoio viene sollevato. Non si può fare altrimenti. Il liberismo e la globalizzazione hanno un prezzo: i nemici sono ovunque. Sono i vicini di casa che parcheggiano la loro auto davanti al nostro garage e che vanno, per questo, puniti, o qualcuno che fa festa in strada con la musica a un volume troppo alto, per cui è giusto prendere il fucile e sparare tra la folla, come è accaduto a Padova qualche giorno fa, dove un 75enne ha sparato con il fucile da caccia, ferendo lievemente tre giovani che con altri amici stavano festeggiando un neo laureato.

Ma nemici non sono solo i singoli individui presi a caso in una comunità fatta a pezzi dalla competizione e dall’individualismo possessivo. Ci sono anche nemici identificati per genere; le femmine per i maschi, ad esempio, che con le loro pretese di diritti e le loro ambizioni, minano la stabilità delle famiglie (di qui la prospettiva di un possibile divieto di abortire e di divorziare, come Trump e il suo vice, e qualcuno ancfhe in Europa, promettono); o individuati per etnie, per esempio, i neri per i bianchi (di qui respingimenti, deportazioni e i mancati salvataggi in mare). E naturalmente, ci sono i nemici di sempre, di classe; i poveri per i ricchi, di qui le fortificazioni urbane, la sorveglianza informatica, l’eliminazione del reddito di cittadinanza, in modo che non possano sfuggire, la criminalizzazione dei tossicodipendenti, dei ludopatici e degli alcolisti (dopo aver creato il mercato delle dipendenze) e l’inasprimento delle pene per futili motivi, un deterrente classico, per far sì che chi pensa di protestare viva nella paura.

Poi ci sono i nemici globali, primi fra tutti, i cinesi e i russi (di qui i dazi per i prodotti, le interruzioni alle forniture energetiche, le sanzioni, gli embarghi e le guerre, per indebolirli e isolarli). Tantopiù che, per inciso, sembra che la Russia voglia invaderci, proprio come l’Iraq, che dovevamo annientare perché aveva le armi chimiche che minacciava di usare. Infine, ci sono i soliti  nemici residuali, apolidi e vaganti, i popoli senza Stato: Curdi, Rom, Armeni, Palestinesi.

Le due fasi del pressing: protezione/difesa e aggressione/espansione

Questa situazione in cui, noi siamo noi e gli altri sono inferiori o arretrati, o non esistono (comunque non dovrebbero esistere), da un lato, spinge per prospettive neoliberistiche aggressive di espansione e di eliminazione, dall’altro, prefigura ritirate, chiusure, difese, protezionismi e intolleranze.

Sono dottrine contraddittorie, ma è proprio la contraddizione dialettica che è l’anima dell’Occidente. In realtà sono entrambe la conseguenza del libero mercato che arranca e che, adesso, deve avanzare nella forma di iperliberismo ma, al tempo stesso, deve farsi autoritario per sopravvivere a se stesso in questa fase avventurista e spregiudicata. Tuttavia, come sanno bene gli atleti professionisti, spingendo sulle performance (di profitto) e sull’agonismo (da mercato) a tutti i costi, si fragilizza la struttura fisica, il corpo (sociale).

Segnali di irrigidimento e prospettive autoritarie si moltiplicano ogni giorno e si alternano alle spinte aggressive. Sono il tentativo di impedire una destabilizzazione globale e una perdita di controllo, a causa dell’aumento delle diseguaglianze, anche in conseguenza della caduta degli Stati, la cui sovranità è gravemente compromessa. Perciò, come sempre accade quando non si è più autorevoli, si diventa autoritari. Per questo si alza la voce e si alzano le mani, in modo metaforico e non.

Avvertimenti e consigli utili

Il recente report della Commissione europea, per esempio, ammonisce l’Italia sui rischi di una grave limitazione in atto della libertà di stampa (Rapporto annuale sullo Stato di Diritto“Rischi per la libertà di stampa e l’indipendenza) a causa dell’occupazione politica della RAI, o per la presa di controllo da parte di imprenditori privati (Angelucci, già proprietario de Il Tempo, Libero e Il Giornale) dell’AGI, così come, dubbi e perplessità della Commissione sono espressi per la riforma della Giustizia riguardo ai rischi della perdita di indipendenza dei Giudici.

Per citare un altro esempio, pochi giorni fa, i sindacati  hanno denunciato che i lavoratori RFI sono stati “convocati in colloqui privati” e “minacciati” per aver scioperato. Personale “in apprendistato” che riferisce di essere stato messo sotto “attacco” dopo l’astensione dal lavoro.

Secondo quanto denunciato in una lettera dai sindacati Filt, Fit, Uilt, Ugl e Orsa del settore trasporti, gli impiegati Rfi della Sala Circolazione e degli Impianti del Reticolo Circolazione di Firenze sono stati ripetutamente intimiditi – e indirettamente ricattati – dal responsabile di sala e, in alcuni casi, dal dirigente regionale, dopo essersi astenuti dal lavoro il 7 e il 18 luglio scorso, in occasione dello sciopero dei trasporti proclamato da alcune sigle sindacali per “il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro” e per il “miglioramento delle condizioni lavorative, sia normative che salariali”. Una situazione che Rfi, contattata dal fattoquotidiano.it, descrive come un semplice tentativo di confronto: “L’intento dei responsabili aziendali era quello di ascoltare eventuali disagi o criticità posti dai dipendenti nell’ottica di mantenere un confronto e un dialogo costruttivi”. Secondo i sindacati, invece, si sarebbe trattato in un vero e proprio “attacco diretto nei confronti dei lavoratori, sia a livello personale che professionale” (Il Fatto Quotidiano – Francesca Fulghesu- 27 luglio 2024).

Ma tutto ciò, non è altro che la conseguenza di questa tendenza autoritaria, di cui sopra, che si fa sempre più esplicita ed evidente, mano a mano che essa si normalizza e che vengano meno le resistenze.

Questo è quanto. Per chi ancora  avesse in mente di protestare, c’è il carcere, come deciso lo scorso giugno in Commissione Giustizia e in Commissione Affari Costituzionali della Camera (art.11 del “Pacchetto Sicurezza”). Il Ddl, varato a fine novembre dall’esecutivo, introduce, infatti, la pena del carcere da sei mesi a due anni per i blocchi stradali e ferroviari. La norma colpirà chi “impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata ostruendo la stessa con il proprio corpo, se il fatto è commesso da più persone riunite”.

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