Paolo Borsellino ci ha lasciato una eredità morale che non può essere dispersa. Il Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina dei Diritti Umani vuole ricordare la strage di Via D’Amelio, 19 luglio 1992, promuovendo piccole azioni di legalità in tutto il territorio nazionale; in particolare, chiediamo a tutti gli utenti dei social network di postare nella data della ricorrenza in oggetto una celebre frase di Paolo Borsellino, espressione autentica della tempra morale e della rettitudine di un uomo che ha vissuto la legalità come il principio ispiratore del proprio operato e non solo come l’esecuzione di un mero “dovere” da parte del cittadino nei confronti dello Stato: “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato”. Inoltre, a partire dalla riapertura delle scuole, si propone l’idea
di realizzare una “rete sociale”, intitolata a Borsellino (“La rete di Paolo”), atta a permettere la condivisione di materiale multimediale selezionato e creato dagli studenti, incentrato sulle problematiche criminali relative al loro territorio e al contesto nazionale, ma anche sulle riflessioni– percezioni – eventuali soluzioni prospettate degli stessi in merito alle tematiche in oggetto. In caso di adesione, è possibile rivolgersi al seguente indirizzo mail: coordinamentodirittiumani@gmail.com.
E’ necessario continuare a promuovere in modo capillare, pervasivo e strutturato l’idea che appartenere ad una comunità, una scuola, una famiglia, un paese, non ci esime, anzi dovrebbe essere tutto il contrario, dal sentirci inseriti in una realtà più ampia che è quella dello Stato; ancora oggi purtroppo tale concetto viene considerato come estraneo, se non in forte contrapposizione, specialmente negli ambienti malavitosi, agli interessi del singolo e della piccola propria cerchia di riferimento. Il campanilismo acritico, il familismo, il nepotismo, il clientelismo sono tutte varianti deviate e pericolose, in quanto foriere, spesso, di molteplici atti criminosi, che derivano da un unico aberrante concetto in base al quale, in Italia, l’individuo viene contrapposto rispetto all’entità astratta Stato. Solo quando si capirà che il cittadino non è “cliente” e che lo Stato non è un nemico,
si riuscirà a contenere la criminalità. La scuola in passato ha contribuito a rendere più omogeneo l’assetto culturale dei nostri connazionali, promuovendo non solo la cultura, ma anche un’autentica possibilità di riscatto per tanti studenti; i docenti erano apprezzati per i loro sforzi ed erano considerati credibili nel loro ruolo educativo; attualmente ripristinarne il prestigio e la dignità significa costituire uno dei pochi argini alla “deriva” socio-culturale dei nostri tempi. Educare, comunicare e trasmettere valori diventa impraticabile, se la propria credibilità professionale viene sminuita in varie forme. Educatori “deboli” non incideranno sul tessuto sociale in cui operano e altri modelli, inappropriati o fuorvianti, prenderanno il sopravvento, specialmente nelle realtà più
abbandonate e ad alto rischio malavitoso. Modelli per i quali lavorare onestamente, evitando scorciatoie, facilitazioni, compromessi, è da sciocchi o da miseri falliti.
“La legalità non deve essere una semplice parola da ripetere nelle occasioni pubbliche -dice il prof. Romano Pesavento, presidente del coordinamento nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani -, ma costituire una forma mentis, un automatismo “consapevole”. La scuola diventa il banco di prova della società che decidiamo di scegliere per noi e per le generazioni che verranno”.
E ricorda una frase del giudice Antonino Caponnetto: “La mafia teme la scuola più della giustizia. L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”