La scomparsa delle industrie e degli operai è una conseguenza della fine dell’economia di produzione e dello sviluppo dei servizi e dei consumi che continua a generare una drammatica fuga dal Sud. In questo contesto non risulta più prioritaria la formazione tecnica e culturale, ma, invece, lo è l’informazione pubblicitaria, lo sono gli influencer, che sostengono i nuovi bisogni, spesso merci di posizionamento sociale o che appagano il desiderio di consumo indotto.
L’accesso e la connessione alla rete, così come lo sviluppo delle nuove tecnologie hanno, naturalmente, contribuito a questo risultato, dilatando, almeno in apparenza, i canali di comunicazione e di informazione con cui si trasferiscono stili di vita, tendenze e prodotti.
La fine della scuola
Al contrario, è sotto i nostri occhi l’impoverimento dell’offerta scolastica, a cominciare dalle strutture inadeguate e spesso fatiscenti e dalla dequalificazione dei docenti, i quali sono costretti a bassi stipendi pur di conservare contratti a tempo indeterminato, il che li ha declassati, da impiegati pubblici a operai sociali.
Tutto questo risponde, naturalmente, anche a una politica neoliberista che spinge per la privatizzazione dei servizi, per l’arretramento della funzione pubblica e delle politiche sociali di tutela, e per l’avanzamento del mercato e delle sue regole di competizione come criterio di selezione e accesso.
Lo scadimento della formazione pubblica si è determinato, infatti, anche a causa della trasformazione della scuola, da struttura di formazione, ad azienda di servizi, attraverso, per esempio, il decreto cosiddetto della “buona scuola” che Renzi e il Pd avevano voluto, con il taglio delle risorse per nuovi impianti e con la mancata innovazione dei servizi.
I finanziamenti per la ricerca sono sempre più scarsi, così come quelli per lo sviluppo della didattica o per sostenere la comunità educante che sono attribuiti alle scuole con fondi a progetto e che spesso sono utilizzati, impropriamente e miseramente, per una redistribuzione tra il personale docente al fine di compensare i bassi salari.
Il taglio del personale, il mancato cambio generazionale in assenza nuovi bandi di assunzione, la riduzione del tempo pieno, l’inadeguatezza dei programmi, hanno fatto il resto.
La profonda frattura prodotta dal dissesto della scuola pubblica
Così come accade nella sanità, si è verificata una frattura innanzitutto tra la società civile e lo Stato, che è sempre più percepito distante, burocratico e ostile, a causa della inadeguatezza dei servizi, ma anche tra gli stessi alunni, poiché favorisce l’offerta di mercato della scuola privata.
Una ristretta minoranza di giovani, infatti, con un reddito familiare in grado di accedere alle scuole private e all’alta formazione, può permettersi di sviluppare conoscenze competitive, mentre la stragrande maggioranza, pressata da disagio sociale e problematiche familiari, vive la scuola come un’area di parcheggio e di tempo perso dove si accentuano ritardo e disincanto. Con il risultato che gli adolescenti diventano i destinatari di un mercato di scarto con basse qualifiche, quando non vanno incontro a esclusione e emarginazione.
È inutile aggiungere che questa situazione nazionale, oltre che penalizzare i poveri, dovunque essi risiedano, incide in quelle aree meridionali dove la carenza di servizi e la mancanza di sviluppo sono una condizione cronica.
Naturalmente, l’aumento della precarietà del lavoro, insieme alla distruzione del welfare, qui più che altrove, ha creato anche quelle conseguenze che hanno destabilizzato le famiglie accentuando la crisi delle relazioni tra coniugi, da cui, rischi per le donne, disagio giovanile, abbandono scolastico, assenza di prospettive di inclusione, per chiudere il cerchio.
L’abbandono scolastico e i NEET
Questa situazione di scadimento dell’offerta formativa e dell’istruzione ha prodotto nel 2022, in Italia, tra i giovani, di età compresa tra i 18 e i 24 anni, una percentuale di abbandono che è pari all’11,5%. Nel Mezzogiorno, per esempio, l’incidenza raggiunge il 15,1%. Dal punto di vista del genere, invece, i ragazzi sono il 13,6%, mentre le ragazze il 9,1%.
Un drammatico primato
In Sicilia, nel settembre del 2021, sono stati resi noti i risultati di uno studio realizzato dalla fondazione Openpolis13, in collaborazione con l’impresa sociale “Con i bambini”, secondo cui – elaborando una serie di dati Istat ed Eurostat – “la Sicilia occuperebbe, con riferimento al 2020, il primo posto per la dispersione scolastica, con un tasso pari al 19,4% della popolazione compresa tra i 18 e i 24 anni: un tasso incredibilmente alto e fortemente preoccupante”.
Secondo Roberto Lagalla, ex assessore regionale per l’Istruzione e la Formazione Professionale ed attuale sindaco di Palermo, ascoltato nel 2022 dalla Commissione Antimafia riguardo alla “condizione minorile in Sicilia”, alcune delle circostanze che hanno favorito l’affermarsi di un così drammatico dato della dispersione scolastica sarebbero da ricercare in due concause: la mancata scolarizzazione precoce dei bambini e la perdita complessiva del monte ore scolastico che i bambini siciliani ricevono rispetto a bambini di altre regioni italiane.
Per Lagalla, il tempo pieno si attesta nella scuola primaria siciliana al di sotto del 10% mentre avrebbe raggiunto nel resto d’Italia percentuali che superano ampiamente il 16% . I bambini siciliani, sembra, abbiano perso ogni anno circa 250 ore di scuola rispetto a bambini di altre regioni italiane. E questo perché non si sarebbe proposto alle famiglie di dare l’opportunità di ricorrere al tempo pieno (Commissione Antimafia – Condizione minorile in Sicilia, relazione 2023)
Un modo, per dire che, in Sicilia, riguardo al programma nella scuola primaria, solo il 19% dei ragazzi potrà usufruire del tempo pieno a 40 ore. Il dato nazionale indica, invece, solo il 30% per i corsi a 27 ore, in Lombardia sono meno del 9%, mentre il tempo pieno è stato scelto dalla metà degli alunni, addirittura il 69% nel Lazio.
Che succede nella scuola secondaria di primo grado?
La secondaria superiore è la scuola in cui il 90,4% degli alunni siciliani parteciperà a corsi di 30 ore settimanali, il tempo prolungato a 36 ore sarà frequentato dall’8,1% e quello a 40 ore solo dall’1,6% degli alunni.
Sempre nel 2022, è stato calcolato che i Neet, i giovani che non lavorano e non studiano sono stimati al 19,0% della popolazione. Nel Sud Italia, l’incidenza di costoro è doppia rispetto al Centro-Nord. Secondo l’Istat su 2.000.000 di giovani Neet in Italia, (rilevazione 2020), Sicilia, Calabria e Campania superano abbondantemente la quota del 30% di Neet, seguite da Puglia, Molise, Basilicata, Sardegna, Lazio e Abruzzo con una quota tra il 20 e il 30%. (ISTAT 2022)
L’Italia è, dunque, il paese europeo con la più alta percentuale di giovani Neet. Quasi un italiano/a su quattro, tra i 15 e i 29 anni, non lavora, né studia, né si sta formando; gran parte, inoltre, vive nel centrosud. In Grecia sono il 17,2%, in Spagna il 14,1%, in Portogallo il 9,5%. (Rapporto Eurofound – Fabio Colombo – “Giovani Neet: chi e quanti sono in Italia e in Europa?”).
Non sono dati insignificanti, il ritardo culturale italiano, e meridionale in particolare, determinerà una maggiore difficoltà di accesso al mercato del lavoro, con impieghi che saranno, peraltro, di scarsa qualità e con basse retribuzioni.
Soprattutto, il rischio è che con l’introduzione in corso dell’intelligenza artificiale e la completa automazione dei processi, si sia del tutto esclusi, in un contesto in cui, lavoro nero, o illegale potrebbero, invece, dilagare.
Il rischio sociale
Questa è la situazione, senza voler considerare il disagio sociale che rischia di esplodere a livello giovanile nelle periferie e nel mezzogiorno, accentuando devianza, dipendenza da stupefacenti, conflittualità e intolleranza diffusa con ripercussioni sull’ordine pubblico. Il che giustificherebbe una riduzione delle libertà e una limitazione dei diritti con il ricorso a interventi repressivi, a scelte politiche autoritarie.
A Palermo il commercio degli stupefacenti negli ultimi mesi si è infatti diffuso enormemente. Lo testimoniano le 250 misure cautelari emesse dagli inquirenti nei quartieri Sperone, Borgo Vecchio, Albergheria. Una lucrosa e fiorente attività che fa da “ammortizzatore sociale” per le numerose famiglie che versano in stato di bisogno.
Infatti, per risolvere i gravi problemi economici dovuti alla mancanza di lavoro legale, genitori e figli minorenni nelle proprie case confezionano le dosi di crack, per poi spacciarle in strada e nelle piazze frequentate dai tossicodipendenti. Con il tacito assenso di vicini, parenti e conoscenti che coprono e “giustificano” tale attività illegale.
Un sottobosco economico criminale e di illegalità che recluta senza fatica le fasce sociali più marginali e che fa da fonte di sostentamento per interi quartieri cittadini.
Di pari passo, questa condizione di disagio diffuso, produce la crescita di intolleranza, razzismo e di aggressioni e violenze contro le donne.
È il risultato della “mano invisibile”, la nota teoria economica secondo la quale ci pensa il mercato a sistemare le cose e a regolamentare i rapporti, senza l’intervento dello Stato che è solo un ostacolo alla libertà di impresa.
Un’eterna... fuga dal Sud
In una tale situazione selvaggia, se i poveri rischiano di non poter sfuggire all’abbandono scolastico e al disagio sociale. Al contrario, le giovani risorse umane, con buone competenze, hanno un solo obiettivo: la fuga.
Solo per citare i dati più recenti, sono stati circa 80.000 i laureati trasferitisi dal sud nel biennio 2020-2022 con una perdita per il Sud, negli ultimi 20 anni, di circa 200.000 laureati con una percentuale di coloro che restano al Sud che non va oltre il 5%.
Basti pensare che dall’Italia, tra il 1861 e il 1985, sono partiti quasi 30 milioni di emigranti. Come se l’intera popolazione italiana di inizio Novecento se ne fosse andata in blocco. La maggioranza degli emigranti italiani, oltre 14 milioni, partì nei decenni successivi all’Unità di Italia, durante la cosiddetta “grande emigrazione” (1876-1915). Altrettanti diedero luogo ad una seconda ondata si verificò negli anni ’50 (nda). Secondo l’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), il numero di cittadini italiani che risiedono fuori dall’Italia è passato dai 3.106 251 del 2006 ai 4. 973 942 del 2017, con un incremento pari al 60,1% (“Focus” 30 luglio 2018 – Storia dell’emigrazione italiana, Giuliana Rotondi).
L’emigrazione di oggi del sud è di tipo intellettuale, non più bracciantile, non è più il povero contadino calabrese o siciliano trasportato con la Freccia del Sud al Nord e poi la mattina dopo alla catena di montaggio della Fiat. Oggi il giovane meridionale che esce dall’Università, scopre che non ci sono industrie adeguate nel meridione e si cerca un lavoro al Nord. Chi ha la laurea addirittura è quasi costretto ad emigrare all’estero.
La conseguenza?
Ne consegue che, così come nella fase dello sviluppo industriale, il sud accumulava un ritardo oltre che per i mancati investimenti, anche per la perdita di forza lavoro manuale, nella fase attuale la perdita di competenze culturali determinerà nuovamente un mancato sviluppo.
Questo si traduce nella permanenza di una condizione di sottosviluppo. Una condizione ideale, di area di risulta e disagio sociale per scarti ed esuberi, in cui la criminalità organizzata potrà pescare a piacimento, meglio che in passato. Più che la mano invisibile, al Sud abbiamo a che fare con la mano morta che, come è noto, è una condizione perpetua.