Non è infrequente nella prassi dell’Istituto della Previdenza Sociale l’invio agli iscritti di varie forme di assistenza e/o trattamenti pensionistici, di avvisi richiedenti la restituzione di maggiori importi erroneamente calcolati sulle erogazioni delle prestazioni anche a distanza di anni dal relativo accredito, molto spesso facenti seguito a rettifiche o ricalcoli interni operati dall’Ente.
Quando è possibile procedere alle rettifiche
Le operazioni di rettifica “a posteriori” sono sempre possibili anche sulla scorta di dati pervenuti all’Ente in data successiva rispetto alla attribuzione della prestazione, ma non sempre le maggiori somme percepite dall’utenza nel corso dei mesi (se non anni) di vigenza dell’erroneo calcolo, specie se di natura pensionistica, sono da considerarsi ripetibili da parte del percettore. Il dato normativo di riferimento è dettato dall’art. 52, Legge 9 marzo 1989, n. 88, ai sensi del quale “le pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, dalle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrative della medesima, della gestione speciale minatori, delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri e coloni nonché la pensione sociale, di cui all’art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione”.
Il mancato recupero
Tuttavia, il comma II della medesima disposizione precisa che “nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento modificato, siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato. Il mancato recupero delle somme predette può essere addebitato al funzionario responsabile soltanto in caso di dolo o colpa grave”.
Il limite dell’ambito della ripetibilità
La disposizione richiamata, dunque, limita l’ambito della ripetibilità ai fini previdenziali dell’indebito oggettivo all’ipotesi della condotta dolosa o gravemente colposa del percettore della prestazione, addossando il relativo onere probatorio sui requisiti oggettivi e soggettivi a carico dell’Ente richiedente.
L’esclusione di ripetibilità
Da ciò deriva la esclusione di ripetibilità in qualsiasi diverso caso di percezione di somme poi rettificate che siano state lecitamente impiegate dal beneficiario per la soddisfazione dei propri primari bisogni esistenziali nella piena e totale buona fede oggettiva e soggettiva, in considerazione del legittimo affidamento riposto dal beneficiario del trattamento nella spettanza degli importi di cui all’originario provvedimento di liquidazione della relativa prestazione proveniente dal medesimo Ente.
Il principio diventato ius receptum della giurisprudenza
Tale principio, espresso anche dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 1/2006 e 431/1993 è divenuto ormai ius receptum da parte della giurisprudenza di legittimità, che ha subordinato la ripetibilità degli indebiti da parte dell’INPS alle sole ipotesi di dolo comprovato, e comunque solamente a decorrere dal momento in cui intervenga il provvedimento che accerti il venir meno delle condizioni di legge (cfr., ex multis, Cass. Sez. Lav., n. 26036/2019; Cass. Sez. Lav., n. 28771/2018), con esclusione di diverse retrodatazioni.
Redditi rilevanti per legittimare la revoca della prestazione
Peraltro, secondo l’evoluzione giurisprudenziale fornito dalla S.C., ai fini dell’accertamento della buona fede del percettore, sussistono specifiche previsioni di legge che consentono all’Ente previdenziale di conoscere i redditi rilevanti per legittimare la revoca della prestazione, anche tramite lo scambio di dati tra amministrazioni pubbliche, con conseguente esonero per i beneficiari dall’obbligo di comunicazione all’ente previdenziale di una serie di situazioni che potrebbero dar luogo alla revoca della prestazione assistenziale. Si consideri, al riguardo, la previsione del c.d. Casellario dell’Assistenza di cui all’articolo 13 del DL n. 78/2010, in base al quale i cittadini rimangono onerati di comunicare all’INPS solamente i dati relativi allapropria situazione reddituale, incidente sulle prestazioni in godimento, che non sia già stata integralmente dichiarata all’Amministrazione finanziaria.
Responsabilità sull’omessa comunicazione
In sostanza, secondo il formante giurisprudenziale di legittimità, il percettore del trattamento pensionistico non può essere ritenuto responsabile (e quindi l’Ente previdenziale non può chiedere la ripetizione dell’indebito) anche per l’omessa comunicazione di dati reddituali incidenti sulla misura o sul godimento della prestazione che siano già stati comunicati all’amministrazione finanziaria.
Quando la malafede del beneficiario è irrilevante
In questi casi, peraltro, sussistendo un obbligo giuridico in capo all’Ente previdenziale di acquisizione e di controllo dei dati trasmessi, risulta irrilevante persino la malafede del beneficiario, in quanto non determinante ai fini dell’erogazione della prestazione medesima (cfr., al riguardo, Cass. Civ., n. 8731/2019; Cass. Civ., n. 11498 del 1996).
E’ inammissibile qualsiasi forma di ripetizione in favore dell’INPS
Con specifico riferimento, poi, alla fattispecie inerente la restituzione dei ratei indebiti di assegno sociale per superamento dei requisiti reddituali, la S.C. in una recente pronuncia ha correttamente ritenuto inammissibile qualsivoglia forma di ripetizione in favore dell’INPS, qualora il titolare della prestazione abbia assolto, ove imposti, gli obblighi dichiarativi previsti dalla legge: “la dichiarazione reddituale è sufficiente, infatti, a dimostrare la mancanza di dolo da parte del percettore della prestazione e a consentire all’INPS la conoscenza dei redditi rilevanti ai fini della revoca della prestazione assistenziale. In questo caso, pertanto, i ratei indebiti di assegno sociale percepiti prima della revoca della prestazione non possono formare oggetto di restituzione all’ente previdenziale” (Cass. Civ., n. 13223/2020).