Concetto di verità. Chiunque faccia parte di una “società civile” ha quotidianamente a che fare con il “diritto”, sia in ambito sostanziale che in quello processuale, inteso quest’ultimo, per certi versi, come la fase “patologica” della categoria giuridica
Avv. Giovanni Parisi
Ma ogni qualvolta invochiamo una tutela giudiziaria, vi è una qualche garanzia che all’esito dell’iter procedimentale intrapreso, venga raggiunta la “verità” con il fatidico “verdetto”? Il dubbio investe sia il cittadino, sia lo stesso operatore del diritto che quotidianamente calca le aule di tribunale.
Preliminarmente, all’interno di un processo, sarebbe opportuno operare una distinzione tra verità sostanziale e formale, intendendosi per la prima quella assoluta, raggiungibile solamente “per approssimazione” all’interno di un processo (civile o penale che sia); mentre per la seconda, quella conseguente al risultato di una corretta applicazione dello strumento processualistico, mediante l’ossequio delle norme di procedura e dei principi istituzionali sottesi ad esso.
In altri termini, la verità nella prospettiva formale, attiene alla corrispondenza tra quanto viene detto in riferimento ad una realtà esterna ed oggettiva, e la identificazione di essa con i fatti controversi e con le norme procedurali applicabili.
Nel processo civile, il concetto di “verità” risulta oltremodo attenuato – se non addirittura azzerato – dalle esigenze proprie legate alla natura del procedimento, inteso quale formazione progressiva di atti, mezzi istruttori e strumenti processuali tesi ad ottenere un unico risultato: la decisione finale.
L’onere probatorio, incombente ex lege su chi afferma la verità di un fatto, subordina il raggiungimento di una certa verità (soggettiva dal punto di vista della parte processuale che la sostiene), all’acquisizione del pieno riscontro istruttorio del suddetto fatto. In termini diversi, la “verità”, in nome del nostro principio dispositivo delle prove, necessita di essere dimostrata processualmente essere declarata, non potendo il giudice, sostituirsi alla parte nel fornire strumenti idonei al raggiungimento di essa. Ed effettivamente, la verità, una volta “raggiunta”, viene semplicemente affermata (accertata) dalla autorità, relativamente ad un fatto preesistente alla instaurazione del processo.
A tale riguardo, dunque, può parlarsi di verità riferita al giudizio, quale approssimazione di una situazione oggettiva, ovvero una “verità giuridica”, mai identificabile con l’assoluta verità delle cose, bensì tendente ad essa, mediante la ricerca (in senso processuale, appunto) preordinata alla ricostruzione di ciò che effettivamente è stato.
Questo “tipo” di verità è, ad esempio, quella riferita alla prova testimoniale, che presuppone – anche mediante il formalismo del giuramento prestato dal soggetto terzo da escutere – la aderenza alla realtà dei fatti delle circostanze emerse dalla deposizione; verità è, inoltre, quella fornita dai periti incaricati dal giudice per contribuire (trattasi, invero, di ausiliari dell’organo decidente) al raggiungimento di essa in termini scientifici.
Ovviamente, la verità del giudizio, per sua natura approssimativa, è soggetta a mutamenti nel corso del processo, ovvero a contestazioni sotto il profilo della adeguatezza delle affermazioni alla realtà dei fatti: ciò la differenzia necessariamente dalla verità del giudicato, legata alla prima, ma intesa quale risultato finale del processo logico-giuridico, e connotata da un certo grado di incontrovertibilità e stabilità.
La verità del giudicato, dunque, viene posta dall’ordinamento come certezza, indipendentemente dal grado di approssimazione del procedimento (la verità del giudizio) ad essa preesistente e da cui la stessa è scaturita: da qui il brocardo “res iudicata pro veritate habetur”.
Anche in questi termini, tuttavia, la verità dovrà essere intesa in senso relativo, atteso che la efficacia del giudicato può essere sempre revocabile, ricorrendone i presupposti di legge atti ad evitare che sussista nell’ordinamento una pronunzia ormai definitiva ma ingiusta (a causa del dolo delle parti o del giudice, a causa della scoperta di nuove prove o documenti, a causa del contrasto di essa con un precedente giudicato, etc.), ossia non conforme a quella verità cui tende il processo.
La relatività della verità processuale, infine, trova il suo più ampio limite nella conciliazione delle parti, strumento questo di risoluzione alternativa delle controversie, cui pervengono i soggetti coinvolti della vicenda giudiziale, senza che quest’ultima giunga mai alla sua naturale conclusione (la sentenza). Nella transazione, le parti, facendosi reciproche concessioni relativamente al fatto controverso, decidono di abbandonare definitivamente il processo, rinunciando in tal modo al raggiungimento della verità su quel fatto specifico, a fronte di una riscontrata “convenienza” o utilità.
D’altra parte, il codice di rito civile, non obbliga affatto le parti (titolari di posizioni giuridiche contrapposte e portatori di soggettive e parziali verità) di agire secondo veridicità, bensì secondo lealtà (cfr. art. 88 c.p.c.), concetto questo a prima vista permeato da una connotazione etica, ma effettivamente limitato ad una correttezza e buona fede processuale che non impone necessariamente ai litiganti l’agire pro veritate, o quantomeno, non in senso oggettivo ed assoluto.