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Maternità anonima: diritto del figlio all’identità biologica e suoi limiti

Maternità anonima: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione fanno chiarezza...

di Redazione

In merito alla maternità anonima, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione fanno chiarezza sulla sussistenza del diritto del figlio nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini, e del contrapposto diritto “all’oblio” della madre

 

Avv. Giovanni Parisi

In una recente sentenza (n. 1946 del 25 gennaio 2017) emessa ai sensi dell’art. 363, comma I, c.p.c., le S.S.U.U. della Suprema Corte hanno espresso un importante principio di diritto in merito alla possibilità per il figlio maggiorenne adottato di avanzare istanza di interpello riservato alla genitrice biologica per verificare la persistenza della volontà di quest’ultima di non essere nominata. Detta pronuncia tende a sanare un contrasto giurisprudenziale in materia di parto anonimo e ricerca delle proprie origini da parte dell’adottato, alla luce della sentenza della Consulta n. 278/2013, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma VII, legge n. 184/1983, nella parte in cui non prevede, mediante un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza, la possibilità per il giudice, su istanza del figlio, di interpellare la madre (che al momento del parto aveva dichiarato di non volere essere nominata, ex art. 30, comma I, d.P.R. n. 396/2000), ai fini di una eventuale revoca di tale anonimato.
In particolare, la Corte Costituzionale, nella sentenza additiva del 2013, aveva considerato eccessivamente rigida la disciplina censurata laddove prevedeva una irreversibilità del segreto espresso dalla madre, destinato addirittura “ad espropriare la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare”.maternità

Da qui muovevano due contrapposti orientamenti: da un lato, parte della giurisprudenza (tra cui la Corte di Appello di Milano, investita del reclamo il cui rigetto è stato propulsivo per la pronuncia di diritto in commento), riteneva inammissibile la istanza del figlio all’interpello della madre “anonima”, in forza di una riserva di legge che avrebbe dovuto disciplinare il procedimento a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma richiamata, non sostituibile giudizialmente; dal versante opposto, diversi tribunali ammettevano tale ricorso di interpello in forza della immediata disapplicazione della norma incostituzionale, della contestuale sussidiarietà del sistema normativo preesistente, nonché della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25/09/2012, che aveva condannato lo Stato italiano per violazione dell’art. 8 della CEDU laddove non prevedesse un corretto bilanciamento tra il diritto del figlio ad accedere alla propria storia parentale e quello della donna alla persistenza o meno della volontà di preservare l’anonimato. E proprio a quest’ultimo indirizzo si è determinata l’adunanza plenaria della S.C. nella sentenza in commento, laddove, sul presupposto che la norma escludente l’interpello della madre ai fini di una eventuale revoca era stata rimossa dall’ordinamento fin dalla pubblicazione della sentenza della Consulta, perviene a ritenere che il giudice, anche in assenza di un intervento legislativo, mediante un apposito procedimento di volontaria giurisdizione, utilizzando tutte le cautele per salvaguardare la riservatezza dei soggetti coinvolti, avvalendosi dell’ausilio della polizia giudiziaria e dei servizi sociali competenti, debba concedere al figlio l’accesso alle informazioni sulla madre biologica qualora quest’ultima intenda revocare il suo diritto all’oblio.

In definitiva, il figlio maggiore di età sarà legittimato ad adire l’autorità giudiziaria per chiedere l’interpello riservato alla madre biologica che abbia apposto l’anonimato; tale facoltà connessa al diritto alla identità personale del richiedente sarà tuttavia prudentemente condizionato al rispetto della libertà di autodeterminazione ed della dignità della donna “tenendo conto della sua età, del suo stato di salute e della sua condizione personale e familiare”. Pertanto, il diritto del figlio troverà un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia stata rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre a svelare la propria identità.

Rafforzativo della predetta soluzione è altresì il richiamo della S.C. ai propri  precedenti giurisprudenziali nei quali si è affermato che “il diritto dell’adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando in senso ostativo il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, di cui all’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali” (Cass. Civ., n. 22838/2016; Cass. Civ., n. 15024/2016).

 

 

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