Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Meridionali e immigrati, per voi c’è il carcere

Il 90% dei detenuti è costituito da meridionali e immigrati. Non è un caso, ma la conseguenza di un mancato sviluppo e la punta di un iceberg di una situazione sociale che, da Roma a Palermo, è con scarse, o nessuna, opportunità. La mafia ringrazia.

di Victor Matteucci

Mario (nome di fantasia) era il nipote di un noto boss di Cosa Nostra. Lo avevano arrestato, giovane meridionale tradotto in carcere, mentre trasportava a Sanremo, nascosto tra i fiori, un carico di droga. Aveva provato a rifiutarsi, ma una notte lo avevano preso e gli avevano tagliato un dito, l’anulare della mano destra.

Aveva una giovane moglie, poco più che una ragazzina appena maggiorenne, e un figlio nato da poco. Non aveva alternative. Il dito tagliato era stato solo un avvertimento.

Quando lo incontrai in carcere, nell’ambito di un progetto di reinserimento sociale, realizzato in collaborazione con Riccardo Orioles, Mario era sembrato il più apatico e il meno interessato. Ma si era proposto, così come gli avevano consigliato di fare. In carcere si impara a fare quello che ti chiedono, senza opporre resistenza, e la Direzione voleva mostrare al Ministero che quello fosse un carcere modello, che vi fossero detenuti, anche con reati gravi, che avevano una buona condotta e la disponibilità ad accedere a programmi di recupero. Era, infatti, da poco entrata in vigore la regge Gozzini, che aveva introdotto una nuova cultura della pena, con misure di premialità e progetti di lavoro esterno per detenuti.

Mario era scettico. Sapeva chi era

Il nome che portava era un macigno, l’appartenenza a Cosa Nostra, un altro. Tuttavia, fu selezionato, un po’ inaspettatamente. Fu lui stesso a sembrarne sorpreso. Ma quando ebbe la notizia sembrò rivitalizzarsi, come fosse stato colpito da una scarica elettrica. Per la prima volta lo vidi arrivare nella sala riunioni con un sorriso, e suoi occhi avevano una certa luce di speranza. Non disse niente, ma venne verso di me e, guardandomi negli occhi, mi strinse la mano. Poi andò a sedersi insieme agli altri.

Lentamente, nei mesi successivi, vidi che cresceva in lui la speranza. Cominciava a credere in quella possibilità e si aggrappò a quella prospettiva come un naufrago si aggrappa a uno scoglio. Lo fece in silenzio, ma con determinazione. Seguì il programma di formazione, fece un periodo di lavoro esterno in una cooperativa e, alla fine, fu assunto come infermiere. La moglie e il bambino di pochi mesi lo raggiunsero, lei lo incontrò fuori del carcere. Seguii da una finestra quell’incontro. Non si parlarono, non si abbracciarono, come temessero di rompere un incantesimo con un gesto troppo brusco. Lei piangeva e gli accarezzava il viso, mentre lui le sorrideva.

Da anni, ormai, Mario lavora con un contratto a tempo indeterminato. Un infermiere modello, a detta di tutti. Si è ripresa la vita tranquilla che voleva, con la ragazza di cui si era innamorato e che aveva sposato. Per anni, in seguito, mi ha chiamato e mi ha inviato messaggi di auguri, poche parole. Aveva un suo modo di comunicare, tipico del carcere; di chi sa che, meno si parla, meno si sbaglia. Ma non c’era molto da dire che non ci fossimo già detti con gli impegni che ci eravamo presi e che avevamo mantenuto a vicenda.

È stato, Mario, la prova del fatto che, quando ci sono effettive possibilità, le persone scelgono di vivere

La Legge Gozzini era stata una possibilità, anche se vi può essere una doppia lettura. La sua introduzione, da un lato, era l’espressione di un cattolicesimo democratico, l’ambito culturale da cui proveniva Gozzini, dall’altro, era una legislazione che era stata introdotta per dividere il fronte delle carceri. Negli anni ‘70/’80, mentre infuriava in Italia un violento conflitto sociale, infatti, vi era la concreta possibilità che, venendo  a contatto, i detenuti comuni, con i politici,  i primi rischiassero di politicizzarsi, cioè di prendere coscienza delle dinamiche di classe insite alla base della devianza. Per evitare questo rischio di saldatura, la legge prevedeva una serie di premialità: per la buona condotta, la dissociazione e la collaborazione. In altri termini, una semilibertà e uno sconto di pena in cambio della dimostrazione effettiva di volere una seconda possibilità.

La situazione attuale dei detenuti in Italia è che sono poco più di 60mila (61.049, al 31 marzo 2024), distribuiti in 192 istituti, oltre 10mila in più dei posti realmente disponibili, con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2% e una crescita, nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre), di 1.688 unità. Le donne sono 2.237 donne, il 4,2% della popolazione carceraria, un dato al di sotto della media europea (5,3 %). Un quarto di esse sono nelle quattro carceri, esclusivamente femminili (Roma Rebibbia, Pozzuoli, Venezia e Trani).

I detenuti sottoposti a carcere duro, invece, sono quasi 10mila, su una popolazione detenuta di circa 54mila unità. Di questi, 749 (13 donne) sono sottoposti al regime speciale previsto dall’art. 41-bis e sono ristretti in 12 istituti penitenziari.

Il 2,9 per cento dei detenuti risulta essere analfabeta, il 2,2 per cento è privo di titolo di studio, mentre il 17,5 per cento ha la sola licenza elementare. Soltanto il 2,1 per cento è invece laureato, rispetto al 15,3 per cento nella popolazione generale.

Al 31 marzo 2024, su una popolazione carceraria pari a 61.049 individui, 34.000 circa sono i meridionali (poco più del 50%) e 19.996 circa gli immigrati,  il 31%  dei quali è di cittadinanza non italiana (19.108).

Sommando i dati si deduce che il 90% dei detenuti è costituito da meridionali o immigrati con bassa scolarizzazione

Infatti, solo 600 sono i laureati, e circa 5mila i diplomati (10%).Tutti gli altri hanno, nel migliore dei casi, un diploma di scuola media (94%). Se volessimo analizzare la tipologia dei reati, scopriremmo anche che la stragrande maggioranza dei detenuti è responsabile di reati di spaccio di droga 20.566 o di reati contro la persona 26.211 contro il patrimonio 34.126 o contro la pubblica amministrazione 10.260.

Dunque, in carcere vanno i poveri, gli individui senza formazione o con un basso livello di istruzione, gli immigrati e i meridionali per reati che riguardano la droga, il patrimonio, la pubblica amministrazione o per volenza nei confronti di altri individui.

Senza voler trarre conclusioni estreme, semplicemente, il carcere ci dice che le cose che accadono perché, di solito, le prospettive di vita di ognuno, sono già scritte. Spesso, chi sbaglia, non poteva che sbagliare perché aveva tutte le condizioni personali e ambientali perché sbagliasse.

Marx diceva che il criminale è necessario perché produce, cioè lavora, anche se involontariamente

Praticamente produce lavoro per avvocati, giudici, per la polizia, le strutture carcerarie, i criminologi, gli psicologi, gli assistenti sociali, ecc. Una fabbrica, con il suo indotto e coi suoi consulenti esterni. Sarebbe da aggiungere, tuttavia, che il criminale è anche un prodotto. Non solo perché è il perimetro della legge (per esempio il proibizionismo) a determinare il reato, ma anche perché questa popolazione nasce e cresce in condizioni di povertà o di disagio sociale.

Si dice spesso che un detenuto è qualcun, al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Ma non è proprio così, il carcere non è così casuale.

Un detenuto, un individuo recluso, di solito, prima di essere tale, è un escluso. E, prima di essere un escluso, è qualcuno che ha subìto una perdita, spesso, una perdita grave.

Condizioni di perdita e di esclusione che non si accettano facilmente

La reazione, in un contesto, di solito, incolto e inconsapevole, è quella di voler riscattare la propria condizione, ma lo si fa nella forma più istintiva che, al contrario, finisce con l’accentuare irrimediabilmente quello svantaggio sociale che si cercava di colmare.

Di solito, inoltre, i soggetti precari e più vulnerabili percepiscono questo svantaggio e coltivano di sé, segretamente, una bassa autostima. Sentono di essere inadeguati, inferiori, carenti, impresentabili. Una sensazione che cercano di contrastare con l’aggressività. Di solito, la vergogna, e la rabbia per quella vergogna, produce una reazione di violenza, o comunque trasgressiva.

Quindi, questi individui, all’origine, sono tutti individui con carenze più o meno gravi, con lesioni psichiche e gravi fratture esistenziali. Sono come le auto incidentate, la cui carrozzeria si potrà anche sistemare, ma conserveranno, comunque, una lesione nella meccanica.

Cercando scorciatoie, si diventa aggressivi, volendo compensare le carenze, si diventa eccessivi. In genere, questi individui reagiscono a paure, perdite e traumi, ma istintivamente, imboccando esattamente la via prevista per loro, e proprio quella che avrebbero dovuto evitare.

Tutte le soluzioni che costoro immaginano sono reazioni che producono un fuoristrada e nuovi ritardi, da cui la rabbia che cresce, la violenza che aumenta e che accentua ulteriormente la loro distanza dal mondo.

È possibile perfino fare lo screening di questi individui. In generale, sono individui lesionati, riconoscibili dalla perdita di equilibrio, di ritmo, di tempi, dalla perdita di stabilità. Come i cavalli al trotto che rompono l’andatura.

Il segno distintivo del deviante è l’instabilità

Ma l’instabilità, a sua volta, è una condizione che si acquisisce, avendo sperimentato relazioni conflittuali in famiglia, o condizioni di inquietudine, a causa di una precarietà/provvisorietà sociale. Di solito, una situazione di rischio esistenziale e la relativa instabilità delle relazioni derivano da situazioni economiche precarie dei membri adulti della famiglia. Ma, anche queste condizioni cronicizzate, sono la conseguenza di traumi precedenti.

Queste condizioni di partenza, nel nucleo familiare e nel contesto ambientale, di estremo disordinate, con soluzioni estemporanee e con una conflittualità diffusa, producono, quindi, giovani disturbati dalle continue crisi, dalle ripetute emergenze.  E’ inevitabile che costoro risultino con una scarsa capacità di essere continui, (stabili, appunto) nel perseguire obiettivi di medio lungo termine ( apprendimento), o incapaci di resistere a lungo in condizioni di concentrazione. La loro educazione è piuttosto quella di vivere a strappi, di produrre e di reagire alle rotture.  Di solito, dunque, una certa irrequietezza o, al contrario, una certa asocialità, sono segnali di un disturbo cronicizzato nella personalità. Sintomi che denotano una mancanza di equilibrio, che producono, con estrema rapidità, stati diiperattività o di depressione o, anche, frequenti cambi di umore e di atteggiamenti che rivelano una psicolabilità più o meno latente.

Quando questi scompensi riguardano le donne, naturalmente, inutile spiegarlo, sono particolarmente devastanti per le conseguenze che comportano.

Foto di set del film Io Pierre Riviere, avendo sgozzato, mio padre, mio fratello…”

Un caso celebre, che spiega esattamente questa condizione di squilibrio esistenziale, è quello di Pierre Riviere

Un adolescente contadino che massacrò l’intera famiglia e che Foucault, recuperando la sua memoria, rese celebre con il libro  “Io Pierre Riviere, avendo sgozzato, mio padre, mio fratello…” (Einaudi). La storia di Pierre Riviere si svolge nella Francia della grande Paura,  alla fine del ‘700. Una volta in carcere, Pierre Riviere scrive la sua memoria e racconta che, volendo aiutare il padre, continuava a caricare il carro finché una delle ruote cedeva e, puntualmente, egli veniva punito.

Foucault aveva analizzato questo eccesso di amore e di protezione che si trasformava in un danno, come un comportamento tipico di chi  non ha equilibrio. Inoltre, aveva ricostruito la vicenda di questo ragazzo che era terrorizzato dal fatto che dal 20 luglio al 6 agosto 1789, nelle campagne francesi, si era manifestata una situazione di panico generalizzato (il periodo della Grande paura) suscitato dalla falsa notizia dell’invasione di briganti venuti a distruggere i raccolti e a trucidare i contadini, per vendicare la nobiltà colpita dalle rivolte agrarie dovute alla Rivoluzione francese.

Un altro sintomo di questa frattura interna degli individui è che spesso il trauma è così forte che non si riesce a elaborare il lutto, anzi, si reagisce procedendo nella direzione opposta, ovvero, quella di ripetere, di riprodurre quel trauma, quel dolore, quella perdita. In altri casi ancora, la fonte del trauma viene rimossa. È il caso del protagonista dello Straniero di Camus. Che inizia in questo modo…

Oggi mia madre è morta, o forse ieri

Mersault, il protagonista, sembra distante da questa notizia, non sembra essere molto interessato… Ma in realtà mente a se stesso. Mersault altri non è se non Camus. un emigrato algerino in Francia; la madre era il cordone ombelicale che lo teneva collegato alla sua identità originaria. Ma il legame era sottile e la perdita era percepita come drammatica, inaccettabile. Ecco perché Camus (Mersault), la nega. Non può affrontare le conseguenza di quella perdita irrimediabile e destabilizzante. E, quando in seguito, Mersault ucciderà, dirà che era accaduto a causa di un riflesso del sole che lo aveva accecato.

Ecco, l’emigrazione o l’immigrazione, in questo caso, è un’altra delle esperienze più traumatiche che produce danni psichici, disorientamento e squilibri irreversibili.

Gli operai italiani, Calabresi e siciliani in prevalenza) che lavoravano a Stoccarda nella fabbrica alla Mercedes negli anni ‘70 erano soliti ritrovarsi alla stazione ferroviaria, nei pressi del binario da cui partiva il treno per l’Italia. Non era un caso, la perdita delle radici era insostenibile, dovevano fare qualcosa per attenuare l’ansia di quella mancanza, avvicinarsi a casa, in qualche modo.

Rizzo e Castelnuovo descrissero con efficacia la situazione psichica degli emigranti/Immigrati (a Mezza Parete – Einaudi). Li descrivono come fossero scalatori che si trovano a metà strada dell’arrampicata. Non sono più quello che erano quando partirono ma nemmeno saranno mai completamente quello che diventeranno.

Tutta l’infelicità e il dolore esistenziale di questi individui si gioca nella perdita di un equilibrio, tra la speranza negata e l’ inconscia sensazione di essere rifiutati, tra l’essere costretti a partire, perdendo identità e affetti, pur di trovare lavoro, e il dover trovare scorciatoie improbabili per ritardi e deficit, in realtà, incolmabili. Perciò, quando accade che si perde la vita, consegnandola al carcere, in realtà, la si era già persa molto tempo prima. Non tutti gli individui feriti o “squilibrati” finiscono in carcere, ma tutti i carcerati sono individui feriti.

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Una risposta

  1. Si sono d’accordo, non tutti gli individui feriti o “squilibrati”, finiscono in carcere, ma tutti i carcerati sono individui feriti.

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