Maria Laura, per sensi terrestri
di Aldo Gerbino*
Ecco: tre minuscoli roditori costruiti con terrose foglioline marrone, molto simili a quelli descritti dalla Contessa Lara in “Una famiglia di topi”, – operina ottocentesca delicatamente illustrata da Enrico Mazzanti (disegnatore della prima edizione di “Pinocchio”), – poi, un minuscolo giardino orientaleggiante fatto dall’accostamento di spighe, foglie e arbusti. Queste due ‘scenette botaniche’ segnano l’iniziale urgenza espressiva di Maria Laura Riccobono, e, come tutti gli inizi essa riveste di certo una non peregrina importanza, ora per scelte metodologiche, ora per l’applicazione di materiali, e, particolarmente, nella evoluzione d’un punto di vista sulla realtà, e ciò attraverso solitarie manifestazioni egualmente inserite nel tessuto sociale del complesso mosaico dell’arte.
Il groviglio espressivo, nel modo in cui vengono offerte le suggestioni dei nuovi linguaggi comunicativi (ricchi di fascinazioni, ma, a volte, anche banalizzanti), e, ancor meglio, dei tanti materiali collocati sul tavolo della ricerca artistica, pervadono, sempre più l’attuale platea, modificando la percezione delle arti figurative, in un oscillare tra quella che ancora potremmo definire l’azione tradizionale della rappresentazione e la rivisitazione delle precedenti estetiche che popolano la grande scena del’arte. O ancora, come in questo caso, rappresentare la necessità di ravvivare quel solco fatto di tattilità informale, opportunamente abbandonata verso un’espansione che trova sfogo in tutta la superficie del supporto, quasi gridando, con forza, il suo voler essere presente nel colloquio con la realtà circostante. Un dilagare del colore e delle materie che quasi inglobano la stessa dimensione del manufatto, il quale non si vuol privare della dinamica artigianale, dell’allettante spezie del laboratorio, della capacità di diffondere, proprio nel taglio dei materiali tra loro intersecati, la possibilità d’interazione, affrontata sempre da un intenso e partecipato mix di cromie.
D’altronde l’uso di fornire all’attuale secrezione di prodotti, variegate sostanze espunte dello scarto botanico confuso con quello industriale, vengono, proprio in tale pittura, riformate, riciclate in ulteriori oggetti dell’osservazione, rese digeribili e riconsegnate alla visione più spicciola, immediata, senza infingimenti lirici, piuttosto elaborando, con evidente partecipazione emotiva, alla componente ludica qui diventata maggiormente effusiva. Un probabile uso neoinformale della materia, proprio attraverso le sue linfe trasposte, vaganti, attestate in tardivi suggerimenti astratti, in quell’eclettico ‘tachisme’ ideativo fatto di vernici, di smalti, vetrose superfici, asettiche planimetrie. Il tutto, comunque, sembra ora vagare per convertirsi in una sorta di gioco privato, in aspirazioni rivolte a quelle frange della natura raccolte per ossessive tautologie, riversando le stesse distorsioni dell’oggi in quel ventaglio estetico della contemporaneità troppo spesso votata alla superficie delle cose, privata dalla riflessione sul gesto imposto dall’arte, però anche capace di cogliere, spesso inconsapevolmente, mutamenti, sollecitazioni, suggerimenti effusi dalle trasformazioni sociali e che ritroviamo in queste fasce di solitaria creatività, alimentata da un’innocente quanto innocua naiveté; una contemporaneità attardata la quale, comunque, desidera saltare il fosso, allontanandosi dalle affollate trincee della produzione artistica, annaspanti, magari, nella platea del consumo.
Ma quale materia interessa Maria Laura Riccobono? quale fluido si attesta sul suo tavolo di lavoro capace di ritrasmettere i segnali di questa sua affannosa, e per certi aspetti compulsiva, ricerca? Le materie organiche sono, in verità, quanto si pone, si accumula, nel suo linguaggio: materie vegetali articolate e vivificate attraverso il collage, l’olio, l’acrilico e riconsegnate, come già messo in evidenza in una lontana personale del 2005 (“Cromatismi vegetali”), da Pino Schifano: quelle foglie, e poi “scorze, frutti, fiori del banano” che “forniscono alla Riccobono alcuni degli ingredienti della sua tavolozza… foglie, sempre fresche, e petali che divengono trasparenti nella pressatura.” Una tassonomia, s’insiste, che va “dal papiro al grano, dalle palme alle felci, dai porri alle cipolle… dalla vite americana (profondi rossi) ai gerani, alle primule, al gelso bianco, al nespolo; dalle carote selvatiche al ficus alle cortecce di ogni genere, alle zinnie…”.
Veri e propri tessuti vegetali, dunque; endoscheletri realizzati dalle trame collose dei fico d’India, dalle nodosità di radici e rami, dalla consistenza porosa dei tuberi, dai sepali fragili, dal cocco, un tutto mosso come invito, – nel modo in cui sottolineava in prefazione Vittorio Sgarbi nel catalogo “Maestri” dove si registra la presenza di Maria Laura, – “alla creatività libera”. Non a caso, allora, in queste “Metamorfosi”, che raccolgono lavori oscillanti dagli inizi degli anni Duemila ad oggi, il tralcio fondamentale di tale pittura si connette con l’esigenza della fabrilità, del plurimo uso di sostanze perfuse nella pittura e in cui i pigmenti e i molteplici gesti si ordinano secondo gli empatici modelli suggeriti dall’affermazione della propria personalità. Un collage in cui il catalogo degli oggetti vegetali non ha valore espressivo per se stesso, ma piuttosto per le relazioni reciproche che in esso s’instaurano. C’è da osservare in Riccobono come la qualità vegetale degli oggetti biologici determini una multipla sensorialità pronta a determinare tattili testimonianze, il senso stesso del cambiamento, della metamorfosi, dello sviluppo. Sono, di certo, i segni informali, a volte vagamente descrittivi (in olî, acrilici e tecniche miste), ora percorsi dal fuoco vivido del rosso ora dai toni pastellati delle terre, a restituirci il gusto d’un terrestre olfatto, simbiotiche visioni di brulicante vitalità.
*Associazione Culturale RicercArte