Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Mimmo balla coi lupi

Mimmo Lucano è tornato. C’è una Calabria che è con lui. C’è una storia ancora da scrivere e un progetto da riprendere e sviluppare. Ora il pericolo non è più politico-istituzionale o giudiziario, ma della criminalità organizzata. Che è sempre là, e aspetta.

di Victor Matteucci

La vicenda Mimmo Lucano, di recente rieletto sindaco di Riace, ricorda molto da vicino il protagonista del film interpretato e diretto da Kevin Costner, “Balla coi lupi”. Il tenente John Dunbar vuole visitare la frontiera, ma scopre che l’inciviltà non è dall’altra parte, non è degli indiani, ma dei bianchi, che fanno scempio dei bisonti per il commercio della pelle, lasciando le carcasse putrefarsi al sole. In breve, egli sarà il traditore, l’amico degli indiani, da eliminare ad ogni costo.

Mimmo Lucano ha una storia simile. Di fronte alle continue stragi in mare di immigrati e profughi che cercano salvezza attraversando il canale di Sicilia, il fossato allagato che circonda il castello medioevale dell’Occidente,  li accoglie e ricostruisce con loro una comunità tra le rovine  di un piccolo paese semiabbandonato dall’emigrazione. Anche lui, come il tenente John Dunbar, è un traditore che fraternizzava con i “selvaggi.”

Il 6 ottobre 2021, Andrea Zappalà, in “Attualità,” scriveva che nel 1998, quando sbarcarono a Riace Marina alcuni rifugiati curdi, Domenico Lucano, allora tecnico di laboratorio, e l’associazione “Riace Futura” aprirono, con progetti di inclusione, le porte del paesino calabro ai richiedenti asilo, ripopolando le case abbandonate dai riacesi emigranti e rivitalizzando un tessuto urbano alla deriva che avrebbe condannato il borgo di Riace, come già molti paesini del centro-sud Italia, ad un inesorabile declino.

Tuttavia, consapevole che l’idea dell’accoglienza, quando non è vietata apertamente, rimane spesso una buona intenzione fine a sé stessa, soprattutto se non è coadiuvata da un effettivo progetto di inserimento sociale, Mimmo Lucano intuì la necessità di un’integrazione sostanziale dei rifugiati col territorio riacese. Dal 1999 egli, dunque, aprì le scuole ai migranti, istituendo corsi di lingua, e finanziò micro-attività per creare lavoro, strappando i migranti alla manovalanza gestita dal caporalato.

In seguito, molti stranieri che di solito usavano l’Italia  come area di transito per il nord Europa, decisero di restare, diventando abitanti di un borgo rinato grazie a tali iniziative di microeconomia e di cooperazione. Questo è stato il modello Riace del tenente John Dunbar, alias Mimmo Lucano.

Contro le stragi e le deportazioni di profughi e rifugiati

L’esperienza riacese invertiva il concetto di gestione del fenomeno migratorio (che è strutturale perché determinato da processi complessi, a cominciare dal colonialismo, e non è dunque una semplice “crisi”) in cui lo Stato o, meglio, le municipalità e gli enti locali, possono svolgere un ruolo attivo e di contrasto al laissez-faire umanitario di quanti bloccherebbero anche i centri d’accoglienza pur di lasciare i rifugiati al degrado sociale ed economico.

Inoltre, sembra una opinione diffusa il fatto che il “modello Riace” non sia stato solo un esperimento, quanto, piuttosto, un’esperienza collaudata:

Si calcola che, in 17 anni, siano passati da Riace almeno 6mila richiedenti asilo provenienti da oltre 20 Paesi del mondo. E molti di loro hanno deciso di rimanere in questo piccolo borgo arroccato sulle pendici a 7 chilometri dal mare Ionio” (Alessandro Sgherri, ANSA).

La persecuzione politico-giudiziaria

La messa sotto accusa del traditore Domenico Lucano e la successiva notizia della condanna pronunciata dal Tribunale di Locri sorprese tutti e sconcertò molti, prima ancora che si riuscisse a leggerne le motivazioni. Di fatto, la sentenza di condanna intendeva porre fine a quella esperienza e alle speranze di un uomo che era diventato simbolo di una battaglia di solidarietà sociale. Tuttavia, la sentenza del Tribunale aveva, proprio, criminalizzato l’aiuto, l’inclusione e la solidarietà. L

a Corte aveva, infatti, aveva rigettato l’impianto accusatorio dei PM (l’accusa si era addirittura detta dispiaciuta per l’entità della pena) e aveva ridisegnato i capi d’imputazione raddoppiando la pena detentiva nei confronti di Mimmo Lucano (13 anni e 2 mesi), definendo la gestione di Lucano “un’associazione a delinquere volta al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” (nonostante i capi d’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per i “matrimoni di comodo” fossero stati rispettivamente rigettati e ritirati dai PM). Francesco Merlo ha scritto su Repubblica attorno a un tema centrale che permette di comprendere meglio il peso della sentenza:

“Quale truffa può esserci se essa non prevede un guadagno per il truffatore?”. Ma la caccia al traditore e la sua cattura non ammettevano dubbi.

La solidarietà è una associazione a delinquere nell’Italia del XXI secolo

Lucano non aveva i soldi neanche per pagare gli avvocati e, nella sua gestione, tutte le irregolarità amministrative rientravano all’interno della questione relativa all’accoglienza e all’integrazione dei migranti, tanto che non sono stati distratti fondi pubblici per fini personali. Eppure, le irregolarità, ammesse dallo stesso Mimmo Lucano, e giudicabili dalla Corte dei Conti, giustificherebbero un giudizio sistematico, inquisitorio, dell’intera esperienza municipale virtuosa, la cui costituzione prescinde dagli illeciti amministrativi che per un tratto della sua durata (non tutta) l’hanno alimentata.

Così come aveva evidenziato Gad Lerner sul “Fatto Quotidiano”, “equiparare ad “associazione a delinquere” la riconversione di un piccolo paese calabrese in vitale luogo di convivenza aperta ai migranti, è al tempo stesso un’aberrazione giuridica e un messaggio devastante. La prima verrà probabilmente mitigata nei successivi gradi di giudizio; ma la criminalizzazione della solidarietà rappresentata da questa condanna spropositata (più alta di molte inflitte a esponenti della ‘ndrangheta) è una ferita non rimarginabile inflitta a tutti coloro che praticano la solidarietà sociale”.

Lucano, infatti, che era stato condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per associazione a delinquere, truffa, abuso d’ufficio e peculato, in sede di appello avrebbe poi subìto soltanto una condanna a un anno e mezzo, con pena sospesa, per abuso d’ufficio, unica accusa confermata.

L’intimidazione come deterrenza. Un avviso di pericolo  per tutti

Al di là della derubricazione dei reati, rimaneva, tuttavia, il segnale politico delle accuse in primo grado di giudizio che costituiva una chiara forma di intimidazione. Ma cos’è che effettivamente aveva creato il panico in questa esperienza? Varie questioni, collegate insieme tra loro. Innanzitutto, la rottura con un modello di sottosviluppo in un contesto mafioso-clientelare governato dalla ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale attualmente leader, sul piano economico, che pretende nei territori che controlla, depressione, sottosviluppo e, soprattutto, niente luci.

Poi, il multiculturalismo come modello e prospettiva sociale che minava l’idea retorica dell’identità e della razza. Ovvero, il pericolo di una sprovincializzazione del tessuto sociale meridionale con il rischio di produrre un modello di convivenza internazionale che conteneva caratteristiche multiculturali e che poteva essere emulato, soprattutto per la forma comunitaria di questo sviluppo locale, che, appunto, rompeva con l’idea di nazione, di razza e con le radici cristiane (dio, patria e famiglia).

La globalizzazione commerciale dei ricchi contro l’universalismo etico dei poveri

Ma, soprattutto, Lucano aveva introdotto un modello di democrazia diretta, comunitaria, che favoriva la partecipazione dei cittadini alla vita sociale. D’altra parte, il sindaco di Riace non pensava che vi fosse qualcosa di eversivo in questo, in fondo negli statuti dei comuni erano previste le consulte, i consultori, i centri sociali, i consigli di quartiere e, nelle imprese, i consigli di fabbrica. Erano conquiste sociali  della seconda metà del secolo scorso che avevano tentato di realizzare il decentramento amministrativo con l’autonomia dei Comuni e la partecipazione della società civile.

Tuttavia, erano tutte riforme sfiorite, ormai, solo sulla carta, o erano disseminate sul territorio come resti arrugginiti di una vecchia battaglia.

La colpa imperdonabile di Lucano è che aveva ristrutturato alcuni di queste vecchie carcasse abbandonate, in particolare l’universalismo etico e solidale che, al contrario della globalizzazione, non riguarda le merci, ma le persone, e non ha un carattere retributivo perché non prevede profitti.

Non è finita qui. Dopo lo scontro  politico-istituzionale e giudiziario, il pericolo della criminalità organizzata

Ma chi aveva denunciato con tanta veemenza lo scandalo di questo tentativo di “autogoverno virtuoso?”.

E’ presumibile che né la criminalità organizzata, né il governo di destra potessero tollerare un simile esperimento politico-istituzionale con il rischio che potesse fare scuola.

L’8 giugno 2024, cadute le accuse, Mimmo Lucano si sarebbe presentato sia come candidato a sindaco di Riace, sia come deputato europeo. Qualche giorno dopo, sarebbe risultato tra i più votati al Parlamento europeo e sarebbe stato nominato di nuovo sindaco del suo Paese. Il punto di vista popolare non era quello delle Istituzioni e del Governo. La distanza tra società e Stato al sud, d’altra parte, è chiara da sempre.

Il modello Riace. Istruzioni per l’uso

Cosa insegna il modello Riace? Innanzitutto, apre una prospettiva sulla opportunità di rivitalizzare le aree interne, che sono in gran parte abbandonate, con progetti di sostenibilità sociale e, dunque, con modelli di inclusione con un carattere multiculturale che possano coinvolgere i giovani, i rifugiati, i migranti, intorno a progetti di fattorie sociali, di produzioni di qualità ricreando una catena del valore.

L’esperienza di Riace, tuttavia, insegna anche che un processo di sviluppo in aree marginali debba essere sostenibile. Ovvero che sia necessaria evitare di sovrapporre alla criticità dei territori, una fragilità sociale con la probabilità di determinare rischi di gestione. E questa sostenibilità richiederebbe l’alleanza con una Istituzione in grado di produrre risorse umane con valore e competenze. Per esempio, l’Università.

L’ipotesi di connettere la marginalità dei territori situati nelle aree interne europee, utilizzando una logica di sviluppo basata sull’economia sociale, sull’accesso alle competenze strategiche dell’università, sulla cultura (cultura qui intesa come merce pregiata trasferita con l’alta formazione) con l’utilizzo delle nuove tecnologie e il riuso del patrimonio storico immobiliare (conventi di origini tardo- medievali, palazzi storici in disuso, chiese, ecc. ) potrebbe determinare una sinergia strategica.

L’idea di Riace potrebbe essere sviluppata, quindi, innanzitutto, utilizzando l’appoggio dell’industria culturale (l’Università) che potrebbe fornire risorse umane con competenze avanzate e, inoltre, si dovrebbe puntare sulle eccellenze del patrimonio storico/ambientale del territorio come volano, come motore di sviluppo, di quelle aree. L’idea potrebbe essere di incrociare un rilevante giacimento culturale locale con l’innovazione tecnologica più avanzata disponibile, con la cultura, nella accezione di alta formazione universitaria.

Per esempio, si potrebbe immaginare il dislocamento nei piccoli centri abbandonati dell’Appennino o del Parco delle Madonie in Sicilia corsi formazione e master in economia sociale a cura della facoltà di economia, che potrebbero essere ubicati presso conventi medievali e palazzi storici concessi in comodato d’uso e, infine, con il patrimonio immobiliare dei piccoli centri, realizzati spesso interamente in pietra e in gran parte abbandonati, ma anch’esso di valore storico. L’idea che questo sistema di piccole unità immobiliari possa essere ristrutturato e adibito a residenze per docenti e case per studenti, oltre che essere sede di servizi ed attività commerciali (l’indotto del sistema di formazione), sarebbe una ipotesi di recupero e sviluppo.

Un processo di sistema e un modello di sviluppo virtuoso per le aree interne

Un tale sistema, così articolato, potrebbe infatti determinare un nuovo sviluppo economico dell’area proprio grazie al decentramento di alcune attività di formazione universitaria attualmente concentrate nelle aree urbane. Questa ipotesi determinerebbe un indotto dei consumi e potrebbe contribuire a contrastare la marginalità dell’area.

Una fabbrica per la produzione e lo sviluppo di competenze con centinaia tra addetti e beneficiari diretti (allievi e docenti) richiederebbe servizi e potrebbe contribuire ad attrare così come a trattenere molti giovani  (beneficiari indiretti). Riattiverebbe spazi e produzioni artigianali locali in modo da invertire la tendenza all’invecchiamento e allo spopolamento.

L’obiettivo di contrastare la tendenza depressiva in atto nelle aree interne si realizzerebbe puntando, cioè, sull’attivazione di un’azione di sistema, basata sulla interazione tra patrimoni storici, giacimenti culturali, innovazione tecnologica e produzione di competenze strategiche.

Tuttavia, questo modello richiede una sinergia tra attori istituzionali in grado di avviare il processo con corsi di specializzazione di economia sociale (o di altra competenza universitaria), il recupero e il ripristino del patrimonio immobiliare per la residenzialità di studenti e docenti, la stipula di convenzioni e la messa a norma di strutture da adibire a sedi di corsi. Parallelamente nascerebbero piccole imprese cooperative per la produzione agroalimentare e per la gestione di servizi indotti.

L’esempio di Louvain-la-Neuve per una pianificazione strategica nelle aree interne

Un progetto pilota per le aree interne che potrebbe coniugare la qualità ambientale dell’alta formazione con l’innovazione, sul modello di Louvain-la-Neuve, una città universitaria pianificata nel Comune di Ottignies-Louvain-la-Neuve, in Vallonia, a 30 km a sud-est di Bruxelles. Con la differenza che, in questo caso, non sarebbe un’operazione artificiale, ma punterebbe sul recupero del patrimonio storico- urbano esistente.

Mimmo balla tra i lupi

Le ultime sequenze del film “Balla coi Lupi” descrivono la fuga, per vie separate, degli indiani, di fronte all’avanzata degli Yankee, e del tenente John Dunbar, con la sua compagna che torna a essere una donna bianca. Le speranze di cambiamento sono solo temporanee. Kostner non riscrive la storia e l’esito finale è una prospettiva reazionaria, senza speranze, se non per l’amore. Ma Mimmo Lucano non è fuggito e non si è sottratto, è tornato. Non è finita, c’è una storia ancora da scrivere. Con una nota a margine: quando in Italia l’ostinazione di qualcuno non può essere contenuta o repressa legalmente, ci pensa la Mafia. Mimmo balla, anche tra i lupi, non dimentichiamolo.

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Una risposta

  1. Non un semplice articolo, questo, ma un piccolo saggio: si parte da un’ipotesi che viene argomentata con dati inconfutabili e fatti noti a tutti, per indagare su un modello di pratica sociale sostenibile che può rappresentare una soluzione a svariati problemi di emarginazione, sottosviluppo e nel contempo di lotta alla criminalità organizzata.
    L’articolo in tal modo diventa anche “agenda di lavoro” per quei Comuni che presentano criticità e caratteristiche simili a Riace, per cui si dimostra che basta credere in un progetto di sviluppo solidale, inclusivo e multiculturale per costruire ponti e rendere la vita migliore a migliaia di persone e forse più!
    Grazie per questo splendido lavoro!

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