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Nicola Lo Bianco: tra poesia e teatro

Nicola Lo Bianco ha insegnato Letteratura Italiana e Latino nei Licei e ha svolto parallelamente una costante attività di scrittore: narrativa, poesia, testi teatrali...

di Pippo La Barba

Nicola Lo Bianco ha insegnato Letteratura Italiana e Latino nei Licei e ha svolto parallelamente, integrando l’appassionato ruolo di docente, una costante attività di scrittore: narrativa, poesia, testi teatrali. Nel 2016 è stato insignito del  prestigioso premio Himera per la poesia

 

di  Pippo La Barba

Da ciò che ha scritto e scrive Nicola Lo Bianco, emerge una antropologia che mette al centro individui ai margini della società, gli esclusi, gli inermi, gli sconfitti, quelli che stanno fuori dal circuito del falso splendore e della splendida menzogna, e perciò stesso personaggi che si rivelano ricchi di inconsapevole intelligenza e di inaspettata umanità

Ha pubblicato: Rapsodia del centro storico”(Borgonuovosud, 89); “Monologo sulla strage degli innocenti”(Caputo tipografica,’03); Lamento ragionato sulla tomba di Falcone(DiGirolamo/Coppola editori, ‘10); I tempi del poeta in piazza(Edizioni La Zisa, ’13);   In città al tramonto (Bastogi, giugno ’17). Tra le opere teatrali si ricordano le messe in scena di:  “Libertà Provvisoria”; “Cantica del lupo et altre stelle”(omaggio a Dante) per diversi anni in tour per la Sicilia; “Bianchi e Neri”, messinscena con gli studenti del Liceo G. Ugdulena;  “I tempi del poeta in piazza”(omaggio a I. Buttitta), al Teatro di Verdura,  con la regia di Mauro Avogadro; “Sanfrasò”, “Vicolo sedie volanti”, ecc…; “La Mandragola” del Machiavelli, tradotta in siciliano e messa in scena dalla compagnia Gruppo Teatro Libero  di Trabia; “Dichiarazione d’amore”, luglio di quest’anno al Teatro Ditirammu, programmato insieme al compianto Vito Parrinello. Per conto del Comune di Misilmeri è autore di una drammaturgia della  Divina Commedia tradotta in siciliano. Nel ’95 viene invitato da Dacia Maraini a partecipare alla trasmissione su RAI 3 IO SCRIVO TU SCRIVI; RAI3 dedica un servizio allo spettacolo I TEMPI DEL POETA IN PIAZZA.

Gli abbiamo chiesto di parlarci di questa sua duplice funzione di docente e di scrittore.

Ti consideri un docente o uno scrittore?
Non so fare una distinzione. Per me, sono due funzioni che si integrano a vicenda, anzi direi che lo scrittore è un prolungamento dell’insegnante. Credo che, almeno al Liceo Classico di Termini, sia stato tra i primi a proporre stage teatrali drammatizzando la Letteratura. Ora che sono fuori della scuola, scrivere è una sorta di continuazione di ciò che ho fatto in 34 anni di carriera scolastica.

Quindi ti ritieni un professore un po’ “anomalo”?
Non so se anomalo, ma certamente mi sono accorto che chi insegna deve essere anche un po’ “attore”, nel senso che deve “rappresentare” anche visivamente, la voce, la mimica, l’espressività nell’argomentare: chi insegna deve attrarre l’attenzione, deve dare tensione e passione a chi ascolta. Ma poi sottovoce mi dico che questo è un talento particolare che non si può pretendere da tutti. Ma da tutti si può pretendere una lettura espressiva “teatrale” dei testi , una lettura , diciamo così, interpretativa. Insomma, vi sono aspetti teatrali anche nel modo di insegnare, perché il messaggio parte dall’osservazione del quotidiano per poi tradursi in letteratura.

Secondo te qual è la funzione del teatro?
Per me il teatro ha fondamentalmente una funzione civile, come d’altronde anche l’insegnamento, e questo forse principalmente per il fatto che nel teatro c’è un rapporto diretto, e quindi uno scambio obbligato e sinergico, tra attore e spettatore. E per civile intendo che ci deve essere un sussulto emotivo che faccia guardare la realtà con occhi diversi. Per quanto mi riguarda tutto quello che ho scritto e scrivo ha due sfaccettature: una letteraria, l’altra teatrale.

Quindi esiste un’osmosi tra narrazione, poesia e teatro?
Si, tutto nasce dalla vita, dall’osservazione della quotidianità. Negli ultimi due libri che ho scritto, “Lamento ragionato sulla tomba di Falcone” e “In città al tramonto”, parlo degli sconfitti, che spesso vengono percepiti come folli nelle categorie usuali di pensiero. E che hanno invece molto da insegnarci.

Quale è stato il tuo primo approccio con il teatro?
Nei primi anni sessanta, assieme a Nino Drago, Ninni Picone, Rory Quattroccchi, Gigi Burruano,  Benedetto Raneli e altri costituimmo una compagnia teatrale, “i Draghi”, la cui prima rappresentazione  fu “L’aria del Continente”, presso la sala Scarlatti del Conservatorio. Poi, con il Piccolo Teatro di via Pasquale Calvi, vennero fuori Franco Scaldati, Giacomo Civiletti, Paride Benassai, Giorgio Li Bassi, Toni Sperandeo, che lavorava in coppia con Gianni Alamia, ecc., sicuri talenti che si sono affermati anche a livello nazionale.

Che tipo di teatro era?
Era un teatro, io uso dire, che proveniva dalla strada, fatto cioè da ragazzi la cui maestra di vita era principalmente e soprattutto la strada, che allora era un teatro a cielo aperto. Per noi ragazzi di allora che sentivamo qualcosa, dei fermenti ancora indefiniti, la strada  era la più diretta e vera conoscenza. A questo proposito, voglio ricordare , ad es. , che io e Nino Drago ci inventammo il Teatro Cronaca, portavamo cioè sul palcoscenico eventi e protagonisti di fatti di cronaca. Ricordo  un episodio del Cortile Cascino, dove una madre teneva suo figlio ragazzino attaccato con una catena al “canalone”  perche era troppo “tosto”, disubbidiente , ribelle e pronto a fare e a farsi male.

Come definiresti il vostro ruolo?
Possiamo dire che siamo stati gli antesignani di quella che poi è stata definita drammaturgia palermitana, che ha avuto il merito di avvicinare la gente comune, cioè anche gente della Vucciria, del Borgo, al teatro, e che ha espresso autentici talenti, primo tra tutti Franco Scaldati e Gigi Burruano, scomparso, come si sa, recentemente . Ma non dimentichiamo anche Salvo Licata con i suoi Travaglini.

Qual è lo specifico di questa drammaturgia?
Una tipologia di teatro quasi sempre collettivo, anche nei testi ognuno portava il suo contributo. “La coltellata” di Gigi Burruano nasce alla Vucciria, da un episodio di cronaca. Contestualmente si maturava la convinzione che quello del teatrante poteva essere un lavoro come un altro. Negli anni 60 e 70 Palermo è stata una  città straordinariamente viva sul piano culturale.

Quali sono le tue attuali aspettative?
Vorrei che i miei testi venissero non solo sceneggiati per il teatro, cosa che in parte anche io ho già fatto, ma che diventassero delle ballate per cantastorie.

Da dove nasce questa esigenza?
Dalla convinzione che la mia scrittura, sia narrazione che poesia, scaturisce dall’oralità. Mi accorgo infatti che si alimenta della parola viva, del linguaggio parlato, discorsivo, tanto che spesso la narrazione si fa corale, come avviene, appunto, nelle situazioni dove la conversazione si fa racconto. Abbiamo parlato di follia. Ecco. Cerco sempre di accorciare la distanza tra realtà e scrittura, di eliminare il diaframma che separa il racconto dalla vita vissuta: una follia anche questa, appunto, che prendiamo come una fantasia poetica.

 

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