di Aldo Gerbino
Di certo vive l’icona di Nina (forse abbreviazione di Antonina), la siciliana rimatrice del XIII secolo fiorita intorno al 1290 e di cui s’ignora ‘casato e rango’. Donna, che pur nell’assenza di prove certe, fa emergere, – nell’insolito ed evocativo tiepido suo vento, appena toccato da radi sonetti e versi accolti nell’edizione giuntina delle rime antiche (1527), – parole, sospiri, e, per immaginifici tratti, l’impalcatura stessa della sua oscura vita. Da tali sonetti nel contempo affiora, prepotente, la figura di Dante da Maiano (già presente nel ms Laurenziano Rediano 9, segnalato da Santorre Debenedetti, uno dei maestri del filologo e saggista Carlo Dionisotti). Il poeta fiorentino a lei devotissimo, pur nell’assenza di un contatto diretto, intreccia, in virtù dell’invio d’un suo accorato componimento, un intenso rapporto ideale costellandolo di sonetti con acrostici e rimalmezzi. Al suo poetare la sicula donna risponde col proprio sonetto Qual sete voi, sì cara preferenza, e tanto impregna di suggestione il suo amorevole rapporto che si fa chiamare Nina di Dante. Alla poetica missiva della siciliana il Maianese, così chiamato per la sua origine da un luogo del Poggio di Fiesole, risponde tracciando un acrostico nella prima quartina. Anch’egli attivo intorno al 1290, “fu tenuto da quelli del suo secolo per poeta non ignobile”, insistendo come “la maggior parte de’ suoi Sonetti, tessuti per lo più con la rima nel mezzo dei versi, non contengono che elogi volgari esagerati della sua donna, lamenti delle sue pene, preghiere di aver pietà de’ suoi affanni, comparazioni di lei co’ fiori, colle rose, con brillanti pitture”. Anche se, sotto i riflettori del Positivismo, Adolfo Borgognoni, – il letterato che occupò a Pavia la cattedra appartenuta al Foscolo, l’amico e biografo di Giosuè Carducci, – nella sua La condanna capitale d’una bella signora (1881) costruisce un registro intellettuale posto a dimostrare l’inesistenza della donna siciliana (così dello stesso Maiano), la realtà di Monna Nina (citata dall’Accademia della Crusca per volontà del modenese Alessandro Tassoni, il noto autore del poema eroicomico La secchia rapita), s’è sempre mostrata, a dispetto di tutto e tutti, fornita d’impavida consistenza. Una consistenza spirituale che rileggiamo, a distanza d’oltre cinquecento anni, nei versi passionali della Turrisi Colonna, ben incastonati nella lirica Alle donne siciliane: “Perché l’umili cure e l’ozio indegno / Tolgon foco all’ingegno / Se qui, di senno e di virtù colonna, / Qui preparava Nina, / Disdegnando la gonna, / Al divino Alighier l’arpa divina?” (Liriche, Le Monnier, 1846).
Nina, nativa, con qualche probabilità, di Messina secondo l’indicazione di Leone Allacci (1586-1669), medico, erudito, teologo greco quanto pertinace indagatore sull’esistenza dei vampiri, aleggia in quei territori popolati da Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca Vaticana e Barberina (Napoli 1661), mentre, dal Mongitore, viene identificata quale rimatrice palermitana. Essa è presente nel Parnaso siciliano, ritratta, col medesimo trasporto della Turrisi Colonna, nei tormentati versi di Mariannina Coffa: “nove armonie / Chiese all’arpa fanciulla, e addusse al bello / Il gentil idioma. – Enzo e Manfredi / soavemente ne temprâr le corde; / E Piero, e Ciullo, ed Oddo e Guido, e Nina / La baciâr sospirando…” (in Poesie scelte, Noto 1885), assumendo in tal modo una più rilucente pàtina, proprio in ragione del rapporto con una figura poetica nella quale amore, gelosia e morte drammaticamente si mescolano, nutrendosi con voracità del midollo delle emozioni e restituendo a se stessa quella “lucidità del presentimento” che la condurrà alla solitudine, alla morte; e, diremmo, proprio per tali capacità recettive, la presenza di Nina appare, nell’arco creativo della poetessa netina, ancora più inoppugnabile partendo proprio dalla sua vaporizzazione storica. La Nina, per Dante da Maiano, è donna “soprassaccente”: “Tanto v’assegna saggia lo sentore / Che muove, e ven da voi, soprassaccente”; ma, oltre che “soprassaccente”, fu anche, a detta di molteplici fonti, “donna gentile e leggiadra, bellissima sopra le altre del suo tempo, e della sua Nazione, e che fu la prima femmina che s’abbia notizia che poetasse in lingua volgare” (Nannucci, La Nina siciliana). Un primato che le potrebbe essere insidiato soltanto da figure come la Compiuta Donzella fiorentina o Gaia figlia di Gherardo da Camino la quale, già prima del 1254, disputava, a detta dell’Alighieri, con i poeti Provenzali: “O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta / Rispose a me, chè, parlandomi Tosco, / Par che del buon Gherardo nulla senta. / Per altro soprannome i’ nol conosco / S’io nol togliessi da sua figlia Gaia” (Purgatorio, C. XVI). È interessante notare, al di là delle priorità temporali, quanto appaia stimolante la presenza dell’intelletto femminile espresso in lingua volgare in tempi così iniziatici per la letteratura italiana nata, nel modo in cui sensibilmente è stato sottolineato da Enzo Siciliano, tra “terra e cielo” (1986); e per Nina, il giudizio di Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728), – tra i primi critici a tracciare un profilo storico ed estetico della poesia italiana, – dà forza sia al sonetto del Maianese che egli propone nel suo lavoro critico e in cui figura l’acrostico ‘DANTE’, sia all’evanescente profilo di Nina: che “non solamente fu la prima femmina, che si abbia notizia, che poetato avesse in nostra lingua, ma non volle, che niuno si vantasse dell’amor suo, fuori che un poeta: Tutto il loro amore però era posto in iscriversi l’un l’altro de’ sonetti, da’ quali ben si conosce, quanto virtuosa e spiritosa donna ella fosse” (in G. E. Ortolani, Napoli, 1817). Amar da lontano, dunque, nello stesso modo in cui Guglielmo di Bezier diceva alla sua donna: “perché io vi amo più che nulla cosa che sia, ed unqua non vi vidi, ma udito n’ho parlare”, o ancor sottolineare come Dante da Maiano si fosse comportato nel modo dell’occitano trovatore Jaufré Rudel di Blaia (cantato dal Carducci) il quale, s’era invaghito della Contessa di Tripoli “senz’averla mai veduta, ma solo sentendo ricordare dai pellegrini le sue virtù e la sua bellezza. Cantò di lei, viaggiò per lei a Tripoli, ma in nave ammalatosi, fu esposto sulla riva come morto. La Contessa lo seppe, venne a lui, ed egli le morì nelle braccia. Onde il Petrarca nel ‘Trionfo d’amore’, Capo IV: “Gianfrè Rudel, ch’usò la vela e ‘l remo / a cercar la sua morte”.
Ad ogni buon conto quella tensione che sposta in alto, proprio nell’ambito della ‘Scuola siciliana’, il corpo linguistico del volgare anche nella sua accezione di lingua materna, si attesta pure, per De Sanctis, nel sonetto dello Sparviero (“Tapina me che amava uno sparviero; / Amaval tanto, ch’io me ne moria; / A lo richiamo ben m’era maniero, / E dunque troppo pascer nol dovia”), che “se è della Nina – avverte lo storico di Morra Irpina – se è lavoro di quel tempo, come non pare inverosimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un’anima piena di tenerezza e di immaginazione”. Nell’atmosfera dettata dal ‘chierico grande’ Nina siciliana, dunque, così come la Compiuta Donzella fiorentina, “dovettero parere un miracolo”. Se Monna Nina, cui credé lo storico e poeta veneziano del XVII secolo Alessandro Zilioli (l’autore delle inedite Vite de’ poeti italiani,1630), e se, tra i tanti che ne rintracciarono i segni inequivocabili della sua esistenza come l’acume spigliato del poeta Alessandro Tassoni che ne introdusse la ‘voce’ alla Crusca, o ancora l’irruenza foscoliana che la incorniciò quale italiana ‘Saffo’ fino alla cruda inesistenza dettata dal Borgognoni, o il dichiarato interesse del Leopardi per le poetesse italiane in quel disegno che avrebbe dovuto comprendere un vasto arco creativo: dalla Nina a Teresa Bandettini, la danzatrice lucchese, l’Amarilli Etrusca poetessa arcade, permane ben attestata la desanctisiana cifra d’una “tenerezza” linguistica e spirituale. Essa fu, di certo, marchio inequivocabile d’un trascinamento poetico impregnato, con caparbia volontà, di fascinazione per quelle virgiliane Sicelides Musae incubate nel catino della sincretica cultura panormita.
Opere di Nina Siciliana: “Sonetti” e “Rime sparse” in Giuntina di Rime Antiche (Sonetti e Canzoni di diversi antichi autori toscani in X libri raccolte), Bernardo Giunta, Firenze, 1527.