Una breve riflessione sulla pittura dell’artista palermitano alla luce delle recenti personali alla galleria Mediterranea e al conservatorio Bellini di Palermo
di Salvo Ferlito
Un’iconicità totemica e possente, nella cui “ieratica” assolutezza si esprime a pieno l’inconsunta attualità della pittura.
E’ nell’immagine, infatti, nel suo progressivo prender forma attraverso l’equilibrio ricercato fra il segno ed il colore, nel suo imporsi come focus visuale mediante la rigorosa e spoglia stringatezza delle composizioni, nel suo farsi fulcro d’una narrazione così concisa da apparire quasi aforistica, che per Guido Baragli trova compimento l’arcano del dipingere, consentendo alla soggettività artistica di estrinsecarsi pienamente in un gioco di proiezioni sui singoli oggetti raffigurati, così eletti ad efficaci “media” di carattere al contempo altamente simbolico e intensamente espressivo.
In tal senso l’adesione programmatica ed incondizionata al verbo figurativo (padroneggiato mercè una sintassi rigorosa che mai cede a prolissità esuberanti e incontrollate o a superflue e vacue ridondanze) costituisce per Baragli l’opzione lessicale più appropriata, in quanto perfettamente capace di coordinare e armonizzare il “pensare visuale” e il successivo “fare artistico” in una compiuta relazione di tipo estetico.
Baragli, infatti, è innanzitutto un pittore di assoluta classicità e un intellettuale immaginifico in grado di confrontarsi dialetticamente con i “topoi” della pittura d’ogni tempo (dal museo all’attualità), però senza mai scadere nel citazionismo stucchevole e fine a se stesso, ma aggirando – piuttosto – i limiti della citazione colta, grazie a delle narrazioni per immagini nei cui perimetri poter liberare in piena autonomia la propria inventiva e personalità.
Non si tratta di realizzare – sic et simpliciter – delle “mimesi” della natura e del mondo oggettuale ove la fedeltà al dato ottico non abdichi eccessivamente alle istanze della sperimentazione tecnica e linguistica, quanto, viceversa, di fare della figurazione – delle sue potenzialità lessicali e sintattiche – un opportuno strumentario peculiarmente atto all’esplicitazione di quei processi speculativi (non solo specificamente artistico-estetici, ma anche di definizione d’una propria “visione del mondo”) grazie ai quali dare forma evidente e leggibile alle complesse cinetiche dell’identità individuale.
Raffigurare un calciatore nel pieno del concitato dinamismo d’un dribbling o d’una marcatura non implica, quindi, l’esclusiva attestazione d’un virtuosismo figurale o il puntuale racconto d’un evento sportivo, ma la proiezione nello specchio della dimensione iconica d’una soggettività (quella dell’artista-tifoso per l’appunto) che non rinuncia alla levità giocosa e anche alle derive d’una “idolatria simpatetica” (come già accaduto con le poesie di Saba per la Triestina o con i dipinti di Deyneka per lo sport nell’URSS) e che si fa partecipe – seppur nei termini dell’arte e dell’estetica – di quella irruente e liberatoria emozionalità che pertiene all’immedesimazione piena nell’armoniosa intensità del gesto atletico.
Baragli – come è opportuno e doveroso per ogni vero artista – è dunque “ciò che dipinge”, poiché nel suo ideare immaginifico e nel suo tradurre il progetto in gesto compiuto (e quindi in pittura) egli altro non fa che raffigurare se stesso (e il suo essere ed esistere al mondo) nei modi simbolici e allusivi d’una schermatura-mascheramento – quella dell’icona alter ego – che però rimanda chiaramente alla sua ben strutturata soggettività di uomo e di pittore. Una strutturazione operata per progressive sedimentazioni, decantazioni ed alchimie, grazie alle quali i vissuti quotidiani, nonché gli studi , le ricerche e le ricognizioni nei territori del museo e della contemporaneità hanno finito per integrarsi e amalgamarsi a perfezione, conferendo statura e spessore alla sua personalità artistica e garantendo alla pennellata una cifra stilistica d’assoluta e inconfondibile identità.
Un dato ben evidente e percepibile in quello che può esser – a buon diritto – considerato il suo elettivo “cavallo di battaglia”, ovvero la prediletta natura morta, in cui la cultura visuale, la chiarezza ideativa, la misura gestuale e la raffinatezza tecnica si incontrano e armonizzano in un impareggiabile mix di elegante e significativa penetranza ottico-visiva.
Basta operare una ricognizione delle sue opere più recenti – da quelle esposte a fine 2011 alla galleria Mediterranea a quelle viste or ora al conservatorio Bellini – per avere piena contezza dell’indiscusso magistero ormai da tempo esercitato da Guido in questo genere; magistero consistente non in una “iperspecializzazione tematica” – che conduca ad una iterazione ripetitiva, stiracchiata e sciatta, per quanto ben impaginata – degli stessi temi, quanto – piuttosto – nella incotrovertibile capacità di rivitalizzare continuamente determinati soggetti, conferendo loro sempre nuovo smalto narrativo oltre che inconsunta qualità formale. Ecco allora le ricorrenti “icone morandiane” – depurate e metabolizzate attraverso il filtro della propria visione estetica del mondo – sedimentare nei termini “ectoplasmici” di candide presenze, affioranti – per contrasto cromatico – dalla nera e compatta campitura degli sfondi smaltati, in un gioco di rimandi ove l’intangibile assolutezza della “reliquia” viene superata attraverso un personale adeguamento al “qui e ora” per via di ulteriore decantazione coloristica e compositiva. Analoga tendenza all’enucleazone dell’esprit essenziale (quello che in buona sostanza percorre tutta la natura morta dagli esordi cinquecenteschi del Figino e di Caravaggio, proseguendo per gli sviluppi seicenteschi iberico-campani e olandesi dei vari Zurbaran, Recco, Porpora o Claesz, fino alle sommesse atmosfere settecentesche di Chardin e agli sviluppi contemporanei di Cézanne, Morandi e de Pisis, animandone i tipici soggetti e circonfondendoli della caratteristica aura sacrale) si ritrova nelle ultimissime tele di Baragli in cui è l’incandescenza degli smalti rossi, stesi sulla superficie in un denso “à plat”, a consentire agli oggetti-icona di venir sinteticamente a galla, in una costruzione immaginifica la cui incisività visiva ha al contempo la subitanea immediatezza e la profonda penetranza del verso ermetico o dell’aforisma fulminante. Ma è forse in quei dipinti (i grandi quadri con i piatti ricolmi di sgombri a dominare la scena, in una consapevole rivisitazione dei teatrali “bodegones” seicenteschi), nei quali la ripresa dei” topoi” del museo appare quasi ostentata, che il gusto della citazione si disvela per ciò che realmente è: non un lezioso ed autocompiaciuto saggio di cultura storico-artistica, ma una autonoma e densa riflessione sulla paradigmatica “lectio” dei maestri del passato, finalizzata ad una “renovatio” che ribadisca l’inalterata validità della pittura quale strumento non solo (e non tanto) di semplice rappresentazione, quanto di intensa fabulazione per immagini, in grado – oggi esattamente come un tempo – di raccontare ed incarnare la più stretta attualità. In tal modo il nostro Guido ribadisce – un po’ come Queneau nei suoi Esercizi di stile – la neutralità del semplice lessico (inteso come strumento immutabile e cristallizzato) ai fini dell’articolazione del discorso, sottolineando – viceversa – la determinante possibilità di innovare continuamente l’organizzazione e correlazione dei vari termini fra loro, sì da consentire di esplorare sempre nuove potenzialità nell’interrelazione semantica fra significante visivo e significato tematico e da condurre a narrazioni sempre diverse pur nella riproposizione di stessi strumenti di espressione visiva.
Baragli, in sostanza, si sottrae – par buttarla in filosofia – alle insidie dell’immobilismo parmenideo, optando per un dinamismo dialettico di stampo eracliteo o ancor meglio socratico, capace di impedire la sclerosi senile della fossilizzazione citazionistica ed imitativa o la paralisi neuropatica dell’ecolalia estetica, per andare verso una continua rinascita di moduli espressivi assai ben collaudati eppure sempre atti a comunicare emozioni, affetti ed idee.
Classicità ed attualità convivono, dunque, a perfezione nell’ideare e fare artistico di Guido Baragli, consentendo alla sperimentazione tecnica (come nel caso, posto in essere qualche anno fa, del ricorso ad inserti materici di silicone che screzino le superfici, o nel contingente uso di smalti per campire gli sfondi e far emergere le immagini plasticamente) e alla ricerca formale (ben visibile per esempio nelle barche ritratte in una parcellizzazione così marcata da sconfinare nella più pura astrazione geometrica) di coordinarsi in maniera assolutamente armonica e bilanciata, e ribadendo in siffatto modo il grande incanto della pittura: un meraviglioso inganno dell’occhio e della mente, capace, da che l’uomo incise i primi segni sulle rocce, di sollecitare con vis empatica le più riposte corde della psiche.