Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Periferia Italia

Riforme contraddittorie e prive di risorse economiche, visione politica provinciale e conservatrice, marginalizzazione nelle scelte europee e clima selvaggio nel Paese. Ma la narrazione ufficiale, retorica ed entusiastica, si ostina a raccontarci un’altra storia

di Victor Matteucci

Il Ministro degli esteri, Antonio Tajani, di fronte al Sofitel Hotel, nel quartiere Sablon di Bruxelles, dove si tenevano gli incontri per decidere i nuovi assetti del Governo Europeo, nel corso dei quali erano stati formalizzati i nomi dei candidati a guidare l’Ue, ha dichiarato che l’Italia non può essere esclusa essendo la seconda manifattura d’Europa e la terza economia.

Di fatto, Italia, Slovacchia e Ungheria sono state, invece, escluse dall’accordo che i Paesi hanno condiviso (Costa, von der Leyen e Kallas) ai vertici Ue.

Ora, la preoccupazione è rivolta alla ratifica dell’accordo che avverrà in luglio al Parlamento, dove si teme che possano esserci i voti contrari di franchi tiratori in grado di mettere a rischio la maggioranza. Anche per questo motivo la Van Der Leyen tenta di acquisire almeno i voti della destra italiana, in cambio di qualche concessione.

Pochi minuti più tardi, Tajani, rispondendo ai giornalisti, si rammaricava del fatto che l’Unione Europa non avesse stabilito interlocuzioni anche con la destra; ribadiva, in quanto esponente del PPE, il rifiuto ad una alleanza con i Verdi e, invece, sollecitava un’apertura ai conservatori.

Inoltre, aveva aggiunto, che le politiche in direzione della lotta al cambiamento climatico e alle emissioni  inquinanti, con l’abbandono, così come previsto, della produzione di autoveicoli alimentati da benzina e metano, rischierebbe di generare una crisi con conseguenze sociali devastanti.

Ma, di fatto, le scelte politiche erano state fatte; popolari, liberali e socialisti non faranno alcuna alleanza con le destre. Tuttavia, la contraddizione sta nel fatto che, nonostante dalle trattative siano stati esclusi  i partiti di destra al governo in Italia (Lega e FDI), si deve tener conto del peso strategico del Paese Italia. Probabilmente, con la nomina di un Commissario,  di espressione popolare (Fitto). E questo dimostra che l’anomalia è tutta italiana con i Popolari alleati con le destre.

Non ci si può occupare degli immigrati da soli

Il ministro Tajani ricordava anche, tra le varie questioni, che il problema immigrati va governato con il coinvolgimento dell’Europa e con nuove restrizioni alle partenze per impedire, anche qui, una insostenibilità sociale.

Tuttavia, visto che la Guardia di Finanza ha, nei giorni scorsi, scoperto 60.000 lavoratori, prevalentemente immigrati, senza contratto e in regime di totale sfruttamento e  che ai Sindacati risulterebbero che i lavoratori illegali in agricoltura siano circa 600.000, evidentemente necessari alla filiera, non è chiaro quale sarebbe il rischio destabilizzazione da parte dei migranti. Semmai, destabilizzante sarebbe la loro assenza, per l’incidenza del costo del lavoro che ne deriverebbe, e per la concomitante indisponibilità degli italiani.

La verità è che, al di là delle dichiarazioni, gli immigrati devono esserci, e devono essere illegali, perché sia possibile sfruttarli fuori della legalità, appunto, a cura della criminalità. Inoltre, questa illegalità è necessaria alla destra sul piano politico per reiterare proclami sul respingimento, sulla necessità di aumentare i controlli, per evocare il rischio di una sostituzione etnica, per disporre di un nemico da offrire in pasto alle masse, o per abbandonarli impunemente a se stessi, così come è accaduto a Cutro.

Ma, nelle stesse ore in cui Tajani rilasciava la sua intervista a Bruxelles,  a Roma, la Corte dei conti, nell’ambito del “Giudizio di parificazione sul rendiconto dello Stato”, avvertiva che la situazione sanitaria, in Italia, rischia di innescare una crisi sistemica per la fuga dei medici e per i disservizi riguardo alle prestazioni, che i 40 miliardi di INAIL non sono utilizzabili per la spesa corrente e che l’evasione diffusa ha raggiunto livelli di insostenibilità tali da richiedere un rimedio urgente.

A tutto questo si sono aggiunte le polemiche sulle politiche agricole UE che, sempre Tajani, non si è lasciato sfuggire criticando la precedente politica UE riguardo all’agricoltura. Per la verità, l’UE, di fronte alle proteste dei mesi scorsi, aveva già fatto marcia indietro riguardo a varie questioni, tra cui, all’abolizione dei pesticidi. Il che, se può essere stata una concessione utile per gli agricoltori e per la grande distribuzione, non lo è stata, certamente, per i consumatori. Inoltre, anche qui, l’Italia si scontra con i mercati e le produzioni agricole di altri paesi Europei, in primis Germania, Spagna e Francia, che non sono disponibili perdere quote di mercato nell’agroindustria, tanto più che su questo comparto tutte le eccellenze che erano italiane sono in mani francesi.

Riguardo poi alla cosiddetta concorrenza sleale da parte delle produzioni industriali cinesi, in particolare riguardo alle auto elettriche, anche questa, denunciata da Tajani, le posizioni in Europa sono molto contraddittorie.

La Germania, per esempio, invece di appoggiare l’idea dei dazi, ha intensificato i rapporti con la Cina, soprattutto, dopo la crisi delle relazioni con la Russia, riguardo alla transizione green e all’importazione di alcuni componenti essenziali per la produzione di Pale eoliche e non sembra disponibile affatto a porre veti all’importazione di prodotti dalla Cina.

Tanto è vero che il Cancelliere tedesco Scholz, di recente in Cina per un bilaterale, ha sottoscritto nuovi accordi per cooperare nel perseguimento della transizione verde. Addirittura, sembrerebbe che la Germania stia ipotizzando di stringere con la Cina un patto politico-commerciale (o quantomeno di creare un coordinamento) nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero abbandonare la politica di libero commercio seguita finora. Altro che fare la guerra alla Cina.

Tutto questa serie di richieste velleitarie di Tajani, peraltro, sono pronunciate a pochi giorni dall’aver ricevuto, da parte dell’Italia,  la comunicazione di una apertura della procedura di infrazione per l’eccesso di debito (7% del PIL nel 2023 e l’obbligo di rientrare nel patto di stabilità entro il 2027) e con l’esigenza di dover, in autunno, presumibilmente, dover fare una ulteriore manovra di bilancio per recuperare  i circa 20 milioni di euro che mancano per la copertura dei conti pubblici.

Il problema, che questa ricerca di risorse pone, è che, non essendoci alcuna crescita all’orizzonte, ma solo stagnazione e rischio di inflazione, saranno inevitabili nuovi tagli alla spesa. Questo, mentre si è appena varata la riforma dell’autonomia differenziata, senza la copertura economica per i LEP e che, qualora dovesse essere attuata senza tali risorse, il rischio di di accentuare le diseguaglianze interne, tra le regioni, diverrebbe certezza.

Quello che emerge, dunque, in questa fase congiunturale è che l’Italia risulta sempre più periferia, a livello economico, e provinciale, a livello politico, con conseguenze sociali devastanti. Il degrado, la disoccupazione, la precarietà, la carenza dei servizi, l’ illegalità, è dunque inevitabile che producano un clima di tutti contro tutti e una violenza diffusa che viene scaricata sui più vulnerabili, innanzitutto.

Il rischio di isolamento complessivo, in una fase di globalizzazione matura, nella quale le scelte e gli indirizzi politici, economici e finanziari sono  tutti attuati a livello sovranazionale, è molto  probabile.

Ma, soprattutto, il rischio è che, a questo, possa aggiungersi un declassamento della fiducia da parte dei mercati finanziari che potrebbe determinare, a sua volta, una improvvisa impennata dello Spread BTP Italia-BUND (attualmente già al 157.16, molto vicino al picco massimo annuale)

In questo quadro, il progressivo indebolimento della produzione italiana, senza un piano industriale degno di questo nome, sembra aggravare ulteriormente la situazione. Il sole 24 ore, il 27 giugno scorso (a cura di Ilaria Vesentini) ha reso noto una Indagine di Confindustria, Unioncamere e Intesa Sanpaolo che analizzava l’andamento di una delle regioni italiane più avanzate: L’Emilia-Romagna.

Secondo questo studio “Ci sono tre dati interessanti che emergono dall’Indagine congiunturale sui primi mesi dell’anno e le prospettive 2024 presentata da Confindustria e Unioncamere Emilia-Romagna con Intesa Sanpaolo. Il primo dato è che anche la solida manifattura della via Emilia non riesce a tenere testa alla grande debolezza e incertezza dell’economia globale e quel paio di decimali di punto di vantaggio rispetto ai trend nazionali (si prevede un +1,2% del Pil quest’anno e un +1,4% nel 2025) non bastano per evitare sequenze di segni meno su produzione (-3,7%), vendite (-3,5%) ed export (-3%) nel primo trimestre 2024.

Il secondo dato è che le aziende stanno frenando gli investimenti non tanto e non solo perché latita il decreto Transizione 5.0 e per le nebbie sui mercati globali, ma perché non trovano le figure tecniche necessarie per far funzionare le nuove tecnologie: su 54mila entrate nel mondo del lavoro previste oggi dalle imprese in regione, oltre la metà sono profili introvabili: per operai, tecnici di processo e carpentieri la percentuale di distanza tra domanda e offerta ha superato l’80%.

Il terzo dato è che in una fase storica in cui si decanta il reshoring e l’avvicinamento delle filiere produttive come reazione a protezionismi e conflitti, meno del 5% delle imprese ha modificato finora le proprie catene di fornitura (il 67% delle imprese con più di 50 dipendenti ha partner esteri, quota che nell’artigianato scende al 13%) e che tutti i settori e tutte le classi dimensionali in Emilia-Romagna stanno investendo oggi su fornitori cinesi.”

Se questo è il rapporto problematico e la previsione negativa di una tra le maggiori Regioni Italiane in termini di sviluppo economico e livello di servizi, vediamo un’altra analisi riferita ad una delle maggiori regioni meridionali.

Il rapporto Annuale dell’Istat, riferito alla Sicilia, reso pubblico all’inizio di maggio 2024 tende a ribadire una sostanziale debolezza economica. Il divario con il Nord si sarebbe addirittura consolidato e la Sicilia sarebbe più vicina alle regioni della Romania.

Nello specifico, secondo il Rapporto ISTAT, “La Sicilia resta una regione dall’economia debole, ma alle stesse conclusioni era giunto anche il 9° rapporto sulla coesione economica, sociale e territoriale pubblicato dalla Commissione europea lo scorso marzo“.

“Negli ultimi 16 anni, Covid-19 compreso, la Sicilia non è mai riuscita ad accorciare il divario con il Nord Italia. Piuttosto, spiega Istat, le congiunture economiche hanno contribuito a consolidarlo e/o aumentarlo nel tempo. Non va meglio in Europa, perché nonostante la pioggia di miliardi arrivati negli ultimi 20 anni dai programmi della politica di coesione, il Pil pro-capite è rimasto inferiore di quasi il 60% rispetto la media Ue. Così – numeri alla mano – la regione si avvicina più ai territori della Romania.

Stando al “IX Rapporto sulla Coesione”, quindi, la Sicilia è più vicina ai valori economici delle regioni dell’Est europeo per Pil pro capite. Il che suonerebbe certamente come un ritardo considerando, ad esempio, che la Romania è entrata nella Comunità Europa appena nel 2007. Il paragone non è un caso. L’economia in Sicilia è debole e rallentata dalla lentezza della spesa dei fondi FSE della programmazione 2021-2027. Grazie ai quasi 5,8 miliardi di euro disponibili, nessun progetto e stato concluso e nessuno è stato liquidato. Nonostante l’approvazione del programma risalga al 2022 (dati Opencoesione). “La forza economica dei territori, intesa dall’istituto come la capacità di produrre ricchezza, viene analizzata guardando alla presenze di imprese, dimensione e occupazione generata. La specializzazione settoriale, il livello di produttività e la solidità delle attività rispetto agli shock avversi. Messi insieme questi elementi mostrano, appunto, una Sicilia agli ultimi posti tra le regioni italiane per forza economica”.

Ma, secondo Tajan, saremmo comunque la seconda economia e la terza manifattura d’Europa (stesse frasi che pronunciava negli anni ‘80  Craxi poco prima della fine della prima Repubblica) e, secondo Meloni, “Nel 2023 il Prodotto interno lordo delle regioni del Mezzogiorno è cresciuto più della media italiana, cioè è cresciuto dell’1,3 per cento quando la media italiana era una crescita dello 0,9 per cento […]. Gli occupati nel Mezzogiorno sono aumentati del 2,6 per cento su base annua, anche qui dato superiore alla media nazionale, che invece cresce dell’1,8 per cento” (YouTube 25 giugno 2024)”.

Della serie… negare sempre, anche l’evidenza, anche in presenza di prove contrarie. E continuare a ballare, mentre la casa brucia.

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