Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Piani e affari nella deportazione dei rifugiati

Benvenuti nel ventennio del nuovo millennio. Il piano inglese “Ruanda” è una soluzione simile a quella che Hitler aveva immaginato per gli Ebrei, prima della soluzione finale. Anche l’idea italiana per i rifugiati è la copia dei campi nazisti fuori della Germania, in Polonia, Norvegia, Francia, Italia, Olanda, ecc. L’unica novità sono i buoni affari, che il nazismo non aveva considerato

di Victor Matteucci

Prima approvato e poi bloccato in Inghilterra il Piano Ruanda. Era la soluzione simile a quella che Hitler aveva immaginato per gli Ebrei prima della soluzione finale, ovvero, la deportazione in Madagascar. Idea che era stata abbandonata per i tempi lunghi e i costi che richiedeva. Nel frattempo, sono stati inaugurati dall’Italia i campi in Albania per deportare i rifugiati. Anch’essi non sono niente di nuovo, sono la copia dei campi nazisti fuori della Germania, in Polonia, Norvegia, Francia, Italia, Olanda, ecc.

Il lavoro sporco

Il piano inglese “ Ruanda” fu lanciato dall’ex premier Johnson, in seguito fu ripreso dal premier Sunak, l’ex sindaco di Londra di origini indiane, adesso è in stand by con il nuovo premier inglese, il laburista Starmer, figlio di operai e con trascorsi al seguito di Tony Blair che, nel frattempo, ha visitato a Roma EUR, si dice con grande interesse, il “Centro nazionale di  coordinamento per l’immigrazione”.

Il modello Italiano consiste in questo: una strategia per scoraggiare l’arrivo di rifugiati lasciando alla deriva i barconi, con le conseguenze di continue stragi in mare (Cutro e Lampedusa) solo per citare le più drammatiche, sull’insistere con una ossessiva retorica mediatico-politica di un’Italia invasa dai migranti, alimentando in questo modo l’illegalità, e sull’impedire l’’integrazione di giovani che pure sarebbero cruciali per un Paese in grave declino demografico e che, invece, sono costretti a disperdersi e a dileguarsi nel nulla per poter diventare la manovalanza illegale nelle aree turali in agricoltura, pastorizia, ecc., o nelle aree urbane, nello spaccio al dettaglio di droga.

L’unica novità italiana sono i campi per deportare in Albania i rifugiati che, con qualche mese di ritardo, si vanno ultimando. Si tratta di centri di accoglienza voluti e realizzati da Giorgia Meloni, una leader della destra italiana di origini proletarie e proveniente dalla Garbatella, una delle periferie di Roma.

Se mettiamo insieme i protagonisti di queste politiche di respingimento, concentramento e deportazione di immigrati in Europa possiamo comprendere con una certa chiarezza che il lavoro sporco è sempre affidato ai figli degli immigrati dell’Impero Britannico, ai poveri delle periferie urbane italiane e  ai figli di operai inglesi, riscattati e indicati a guidare i partiti della sinistra riformista.

Un classico da manuale

Gli ex proletari o i nuovi borghesi hanno, comprensibilmente, una particolare sensibilità per il denaro e il potere e pagano con entusiasmo il prezzo per entrare a corte, ovvero, l’accettare di fare il lavoro sporco e di dimostrare una certa miseria umana, tale da rendersi funzionali e degni di fiducia all’establishment.

Per il momento, quello che cambia tra i campi e le deportazioni del primo Novecento con quelli attuali sono le destinazioni d’uso. Ma non va dimenticato che anche i campi di Hitler, inizialmente, avevano una funzione di semplice contenimento.

Benvenuti nel ventennio del nuovo millennio

Mercoledì 5 giugno 2024, siglato l’accordo Italia-Albania, il premier Meloni ha visitato la struttura di accoglienza di Shengjin, accompagnata dal suo omologo albanese Edi Rama. L’intesa durerà 5 anni, rinnovabili. Le strutture di Shengjin e Gjader costeranno 670 milioni di euro. Tremila posti, oltre a 500 per i poliziotti e funzionari italiani. Processi per via telematica.

Il protocollo tra i due Paesi “per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria“, è stato firmato dai premier, Giorgia Meloni, e Edi Rama lo scorso 6 novembre a Roma, ed è stato poi ratificato dal Parlamento italiano il 15 febbraio 2024. In Albania, l’accordo ha superato il vaglio del Parlamento e (a fatica) della Corte costituzionale. Con l’atto, si riconosce all’Italia il diritto all’utilizzo gratuito di due aree, quella portuale di Shengjin e quella di Gjader (a 20 km di distanza). Inoltre, il numero di migranti trasportati dall’Italia e presenti contemporaneamente nel territorio albanese non potrà essere superiore le 3mila unità. Mentre il personale italiano tra forze di polizia, militari, funzionari dei ministeri di Giustizia e Salute saranno 500: il loro trasferimento, ha calcolato Openpolis, costerà all’erario in indennità di missione e altre spese 252 milioni di euro. I cinque anni del trattato possono essere automaticamente prorogati per altri 5 se, entro sei mesi dalla scadenza, nessuna delle parti manifesterà l’intenzione di uscire dall’intesa. Al termine della quale l’Italia è obbligata a restituire all’Albania tutte le aree concesse e le strutture nel frattempo costruite, senza diritto ad ottenere alcun rimborso per gli eventuali miglioramenti apportati.

Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con il Primo Ministro della Repubblica di Albania, Edi Rama, visita gli allestimenti presso la Base di Gjader

L’allestimento è stato particolarmente complesso per il sito di Gjader (una ex base dell’Aeronautica albanese di circa 77mila metri quadrati), che, come una matrioska, conterrà tre diverse strutture. La prima, avrà posti per 880 rifugiati provenienti da cosiddetti “Paesi sicuri”, ai quali verranno applicate le procedure accelerate di frontiera (durata massima 28 giorni), per determinare se dovranno avere diritto alla protezione oppure dovranno essere rimpatriati. La seconda, sarà un Centro di permanenza per il rimpatrio da 144 posti (nel quale saranno trattenuti i non aventi diritto alla protezione, fino al momento del loro rimpatrio). La terza, sarà un mini-penitenziario da 20 posti, in cui verrà detenuto chi – all’interno del centro – sarà sorpreso a compiere reati. In questi giorni, i militari italiani stanno costruendo strade, fognature, serbatoi, edifici, con costi preventivati di 20 milioni di euro per il 2024, più 8 milioni per gli allacci delle varie reti. Più contenuta, invece, la spesa per l’hotspot di Shengjin, che è stato appena ultimato e sarà destinato allo screening sanitario, al fotosegnalamento e alla prima accoglienza dei migranti salvati nel Mediterraneo centrale e trasferiti in Albania: 3 milioni di euro per la realizzazione della struttura e 200mila euro (per il 2024) per gli allacci.

Il business con immigrati e rifugiati

Sarà la cooperativa Medihospes a occuparsi, invece, della gestione dell’accoglienza nei centri per 24 mesi, dopo essersi aggiudicata l’appalto con un’offerta di 133,8 milioni di euro (con un ribasso del 4,9%), in seguito all’avviso di manifestazione d’interesse pubblicato dalla prefettura di Roma.

Secondo quanto precisa il governo italiano, “nei due centri albanesi potranno essere trasferiti solo rifugiati soccorsi in acque internazionali da navi italiane, ma con l’esclusione tassativa di donne, bambini e appartenenti a categorie vulnerabili. Nella prima fase, i trasferimenti verso Shengjin avverranno a bordo di unità navali militari italiane”. L’avvio di questa deportazione era prevista per il 15 settembre – data posticipata per ritardi nella fase di allestimento dei centri – e per i successivi 3 mesi i viaggi saranno a carico di imbarcazioni private fornite dagli armatori che si aggiudicheranno l’appalto da 13,5 milioni di euro (in seguito a una consultazione preliminare del mercato lanciata dal ministero dell’Interno). L’ipotesi è quella di un trasporto di circa 300 persone (200 rifugiati e 100 operatori), con 3 o 4 quattro viaggi al mese (andata e ritorno).

La cooperativa dell’accoglienza “Medihospes”, fino al 2021, deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma. Una condizione di quasi monopolio che si conferma anche nel 2022. La cooperativa è strettamente collegata al Gruppo “La Cascina”, al centro dell’inchiesta “Mafia Capitale“. Il presidente di Medihospes, infatti, è Camillo Aceto, ex amministratore delegato de “La Cascina”, indagata per infiltrazione mafiosa.

Questo colosso dell’accoglienza di rifugiati, nel 2022, a Roma e provincia, gestiva 8 posti su 10, «nonostante le ispezioni abbiano fatto emergere nel 2019 diverse irregolarità», si legge nel Report di ActionAid “Centri d’Italia” del 2022. Una condizione di «quasi monopolio» – la definisce Action Aid – che potrebbe portare l’amministrazione a «subirne la capacità di condizionamento», perché «i monopoli (o gli oligopoli), come è evidente, possono indebolire (o annullare del tutto) la capacità di controllo e l’autonomia di scelta delle amministrazioni pubbliche”.

Questa situazione di monopolio, infatti «significa che l’amministrazione rischia di essere catturata dal proprio fornitore e di subirne la capacità di condizionamento», così si legge nel dossier di ActionAid. Tra il 2021 e il 2022, la Giunte 5 stelle e Dem hanno, infatti, indetto bandi e, soprattutto, affidamenti diretti, a favore della cooperativa che ha ottenuto, così, contributi milionari. Se nel 2020 erano arrivati 20mila euro alla Medihospes per la ricerca di personale addetto al Covid per un solo mese, le cifre nei due anni successivi sono di tutt’altro tenore. Il 30 marzo 2021, nelle tasche di Camillo Aceto, arriva 1,5 milioni per soli sei mesi di accoglienza dei rifugiati, anche questo con affidamento diretto e fuori dal progetto Sprar e cioè dal circuito prefetture-enti. Nello stesso periodo, altri 435mila euro per la gestione degli eventi climatici (cfr. Quei milioni alla coop vicina a Mafia Capitale – Bianca Leonardi, 9 Dicembre 2022 – Il Giornale).

L’aggiudicazione negoziata

“Per affidare la gestione dei centri, la prefettura ha avviato una procedura lampo, in deroga alle norme previste per appalti milionari, giustificata dalle «ragioni di estrema urgenza sussistenti». Ragioni che, però, non sono mai specificate. Nonostante le spese enormi per le casse dello Stato, nessuno degli affidamenti è avvenuto con una gara pubblica, che sarebbe stata garanzia di trasparenza.

L’esito della procedura negoziata, senza gara, del valore di 151,5 milioni di euro per quattro anni, però, è stato obbligato. Dopo la presentazione di 30 istanze di enti privati interessati a partecipare, la prefettura ha scelto tre operatori economici a cui è stato chiesto di presentare le offerte, da valutare in base al criterio di quella economicamente più vantaggiosa.

Centro migranti Albania-Ggjader (lapresse)

Offrendo un ribasso del 4,94 per cento, Medihospes è riuscita ad aggiudicarsi la gestione «coordinata e unitaria» delle strutture: il Centro di identificazione nel porto di Shëngjin, l’Hotspot e il Centro di permanenza per il rimpatrio nell’entroterra, nella base militare di Gjadër, definito «un luogo da dismettere», per la squadra di ufficiali italiani in visita a gennaio. È stata l’unica offerta arrivata nel portale della prefettura. Questo significa che il Consorzio Hera e Officine sociali, gli altri due operatori scelti, hanno rinunciato a partecipare.

Con il ribasso offerto dalla Medihospes, il valore dell’appalto è, quindi, di oltre 133 milioni di euro, Iva esclusa, di cui oltre 600mila per la sicurezza, quasi 87 milioni a copertura dei costi di manodopera e 5,7 milioni circa per la tessera telefonica e il pocket money. Costi a cui, secondo quanto scritto dalla prefettura, dovrebbero essere aggiunti, tra gli altri, servizi di trasporto, assistenza sanitaria, utenze, manutenzione ordinaria e straordinaria (cfr. Marika Ikonomu, Domani – 7 maggio 2024).

In copertina “Carta di Laura Canali – 2024 Limes”

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