Dopo decenni, Washington sembrerebbe aver finalmente udito -e al contempo travisato- il sospiro dell’intellettuale messicano dell’epoca porfiriana, Nemesio García Naranjo
di Chiara Raieli*
Come annunciato durante la campagna elettorale, il neopresidente americano, Donald Trump, forse conscio di non poter accorciare le distanze tra il Messico e il paradiso, ha prospettato il completamento della muraglia che ridurrà gli inconvenienti dovuti a una convivenza lunga 3 142 km.
Il conto della menzionata impresa edilizia, seconda solo alle fortificazioni cinesi, sarà pagato proprio dal “povero Messico”, ha assicurato il presidente-businessman. A seguito di tali dichiarazioni il governo capitanato da Peña Nieto, seppur senza abbandonare del tutto una politica di appeasement, ha chiarito che neanche un peso dei contribuenti verrà destinato ad acquistare cemento e laterizi. Tuttavia, considerata la (inter)dipendenza, anche in presenza della volontà politica di opporre barricate al muro e nonostante la società civile si impegni a boicottare il KFC in favore del pollo en mole e l’annacquato caffè di Starbucks per il cafe de olla, non risulta verosimile contrattaccare los gringos sul piano economico.
Scartata, dunque, l’economia come arma di pressione, emerge l’importanza strategica giocata dal Messico dal punto di vista geografico per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori sud-nord, tema caro non solo al nuovo inquilino della Casa Bianca. L’intero paese costituisce, infatti, una tappa obbligata –e finora un ostacolo- per la maggior parte dei migranti provenienti dall’America Latina che accarezzano l’american dream. Da anni la Repubblica messicana ha incarnato il ruolo di fedele cane da guardia del vicino del nord, adottando politiche migratorie volte a criminalizzare e impedire il transito di migranti irregolari, detenendo e deportando soprattutto i centroamericani in fuga da quella che si considera la peggiore crisi umanitaria dell’emisfero occidentale.
Negli ultimi anni gli Stati Uniti, come l’Unione Europea in Turchia o in Libia, stanno cercando di “esternalizzare” il controllo delle frontiere oltre il confine geografico, delegando al vicino meridionale il compito di contenere il flusso. Il Messico, in altre parole, si è trasformato in una frontiera verticale tra Centro America e Stati Uniti, dove i migranti vengono arrestati e rimpatriati prima ancora di poter raggiungere la terra promessa. Vanno in questa direzione l’iniziativa Mérida, firmata nel 2007, e il Plan de la Frontera Sur, annunciato nel 2014. Attraverso questi programmi, il numero di detenzioni su sul suolo statunitense nel corso del 2015 si è dimezzato, mentre, in maniera inversamente proporzionale, in Messico sono aumentati il numero di arresti oltre che le cosiddette “repatriaciones ordenadas, dignas, ágiles y seguras”, soprattutto di persone provenienti dal Triangolo Nord del Centro America.
In conclusione, sebbene non sia realistico ipotizzare una revisione delle politiche migratorie e del sistema dei visti tale da consentire il libero transito fino alla futura muraglia, l’attuale amministrazione del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) non dovrebbe trascurare che la sua funzione di controllore della mobilità umana è una delle poche armi di pressione effettiva. Inoltre, visto che, come riporta la giornalista Dolia Estévez, Trump sostiene di non aver bisogno né del “povero Messico” né dei messicani, sarebbe auspicabile che il governo cominciasse a volgere lo sguardo verso sud, verso resto dell’immenso continente americano.
*Chiara Raieli, laureata in Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Firenze, collabora attualmente con l’organizzazione non governativa messicana, Sin Fronteras.