Negli ultimi anni, la presenza italiana in Cina ha registrato un costante trend di crescita. Ma come vivono gli italiani in Cina? Cosa fanno? Che opportunità offre loro la terra del dragone? Ne parliamo con il presidente dell’associazione Siciliani in Cina, Ambra Schillirò
di Patrizia Romano
Negli ultimi anni il nostro ‘Bel Paese’ è stato letteralmente preso d’assalto dai cinesi. Gli occhi a mandorla pullulano in ogni regione d’Italia.
Oggi, vivono nel nostro Paese ben 332 mila cinesi; la quarta comunità straniera in Italia.
Ma ci siamo mai chiesti quanti italiani vivono in Cina?
Affascinati dalla cultura orientale, quasi 7 mila italiani, sempre negli ultimi anni, hanno deciso di vivere in Cina. Secondo gli ultimi dati dell’Aire, Anagrafe degli italiani residenti all’estero, la presenza italiana in Cina ha registrato un costante trend di crescita. Infatti, la popolazione italiana residente è più che triplicata. In realtà, dovrebbero essere almeno il doppio, perché solo una minoranza è solita registrarsi presso le autorità consolari. Il numero reale, infatti, sfugge a qualsiasi censimento. Oltre 2.500 nella sola Hong Kong, altri 2.300 a Shanghai, più di un migliaio a Pechino e un numero più o meno analogo a Guangzhou.
Ma come vivono gli italiani in Cina? Cosa fanno? Come si comportano? Qual è il loro stile di vita? Che opportunità offre loro la terra del dragone?
“Nonostante l’immagine che abbiamo in Italia della Cina – spiega Ambra Schillirò, presidente dell’associazione Siciliani in Cina – il Paese dagli occhi a mandorla, tanto pieno di contraddizioni e misteri, è molto più simile a noi di quello che giornali e televisioni ci possano propinare. Il termine di paragone con la Sicilia, poi, nel caso specifico, è d’obbligo: quante volte ci siamo ritrovati a camminare per strada e ritrovare i vecchietti seduti sulla sdraio sul ciglio di casa che guardano i passanti? Quante volte dopo una serata in discoteca siamo andati a mangiare al ‘carrozzone’ dei panini o dagli abusivi che grigliano la carne in giro per la città? Bene, quando queste classiche abitudine tipicamente sicule si ritrovano ogni giorno anche in Cina, ecco che lo spessore di questa ‘diversità culturale’ diventa più sottile. No – ribadisce Ambra – la Cina non è diversa dall’Italia, non lo è per niente. Certamente i cinesi hanno delle abitudini che a noi non sono consone, per esempio espettorano dalla bocca, mentre noi lo troviamo maleducato e viceversa loro trovano incivile il nostro soffiare il naso, ma nella maggior parte dei casi ci assomigliano tantissimo, voglia di non lavorare inclusa”.
La Cina è la seconda economia più grande al mondo dopo gli Stati Uniti e la prima potenza asiatica. Alla base di questo successo, oltre alla nota predisposizione commerciale, che la popolazione sembra avere nel Dna, c’è un grande spirito di sacrificio. Infatti, il mondo del lavoro in Cina è rigido ed è molto difficile entrare in una fabbrica cinese. Come fa un italiano ad adeguarsi a questo modo di concepire il lavoro? “Partiamo, intanto, da un fatto che probabilmente molti ancora non capiscono – risponde risoluta il presidente dell’associazione siciliani in Cina -. L’epoca d’oro dello straniero in Cina è finita, morta, sepolta. Continuano ad arrivare qui orde di persone senza arte né parte, convinte di arrivare nel terzo mondo, di chiedere stipendi stratosferici senza nemmeno avere reali capacità. Questa non è la Cina. La Cina, oggi, non solo è il Paese più competitivo al mondo (e io per lavoro viaggio tantissimo), ma non esiste più il discorso che arriva uno sprovveduto e si inventa un mestiere. E’ vero – precisa – che la Cina è ancora il Paese dei sogni, è vero che è una nazione in cui, dandosi veramente da fare, si possono raggiungere grandi obiettivi, ma, dall’altro lato, è anche un Paese che ti insegna che o sei squalo o sei pesce rosso, e il pesce rosso o viene mangiato, o torna a casa. Dico questo con grande rammarico – prosegue – perché vedo tantissimi italiani, ma non solo, arrivare da qualunque parte del mondo, pensando di avere trovato il klondike e di diventare paperon de paperoni. Non funziona più così da anni, ormai, ed ecco anche il perché delle rigide regole per quanto riguarda il visto lavorativo”.
Sembra che le opportunità di inserimento sia quasi nulle.
Forse, il modo più opportuno per lavorare lì è rivolgersi a una compagnia italiana che abbia un mercato attivo in oriente.
Ci sono numerose posizioni aperte per i cittadini stranieri in ruoli tecnici e IT, mentre per lavori nel settore bancario e finanziario c’è un buon mercato, ma è sempre più difficile farsi assumere.
Il mercato del lavoro rimane, comunque, competitivo a causa della presenza di molti professionisti del posto e di laureati provenienti dall’estero. Oggi, se non hai una laurea o non sei specializzato nel settore per cui dovrebbero assumerti, non ti rilasciano il visto. “Ci sono migliaia di persone qui – riprende Ambra – 18-20enni che la mattina arrivano e si inventano un lavoro, si svendono per pochi centesimi e tolgono il posto ai veri professionisti. Purtroppo, quando queste persone arrivano qui non sono come i nostri immigrati che hanno fame e cercano un generico posto di lavoro con grande umiltà per mantenersi. No, qui l’italiano di 21 anni con una laurea triennale si presenta a un colloquio con tanta boria e chiede 2 mila e rotti euro al mese senza nemmeno avere esperienza lavorativa, quando poi capisce che non ha speranza allora si svende per 5-600 euro”. Purtroppo ci sono le persone che scelgono di assumere questa gente, togliendo, appunto, posti di lavoro ai professionisti del settore, stranieri o cinesi. “Io ho un’agenzia di ufficio stampa e marketing in Cina – aggiunge – ed è imbarazzante quanta gente si sveglia la mattina e da muratore diventa esperto in comunicazione. Il professionista riesce tranquillamente a bilanciare la propria mentalità lavorativa con quella di questo paese, basta che capisca che la Cina corre a 300 all’ora e non ci si può mai fermare. Il ragazzo allo sbando in cerca del klondike? Torna a casa e pure sbattendo la porta, perché in linea di massima non ha nemmeno l’umiltà di cercare un lavoretto per cominciare e per mantenersi come farebbe se vivesse in Italia”.