C’era una volta una generazione che, alla fine degli anni ’70 del ‘900, si era battuta per il rifiuto del lavoro, contro una vita senza qualità che si sarebbe dovuta spendere in fabbrica, in un non-luogo alienante. Quella generazione si era battuta anche contro i contratti a tempo indeterminato, che erano senza via d’uscita, contro la ripetitività del lavoro meccanico e contro la rigidità dei di lavoro, rivendicando il “diritto all’ozio”, alla cultura, alla libertà e all’autonomia soggettiva, per un mondo con “la fantasia al potere”. Questi erano gli slogan.
Sembra incredibile raccontarlo oggi, ma alla fine quella generazione era stata accontentata
E così, negli anni ’80 e ’90, quella generazione si ritrovò sui navigli con la “Milano da bere”. Era come se si fosse passati dal mondo in bianco e nero al mondo a colori; la battaglia contro l’omologazione era vinta, l’individualità poteva esprimersi in tutta la sua creatività. La fantasia non era proprio al potere, come si era sperato, ma la liberazione dal lavoro fordista era stata ottenuta. La fine del lavoro industriale era stata anche la fine dello sviluppo industriale e, di conseguenza, della classe operaia. In cambio, il lavoro autonomo, flessibile (precario) e contratti temporanei. Anche la ripetitività del lavoro manuale era stata eliminata, con l’automazione delle macchine e le nuove tecnologie informatiche.
La new economy, così venne definito quel nuovo modo di produzione, prometteva di sostituire, all’industria, i servizi e, alla classe operaia, la “creative class”, ma anche, al popolo, il pubblico degli spettacoli e, ai lavoratori, i consumatori.
Il cambiamento era epocale, ma i festeggiamenti per la liberazione dalla tuta e dal tornio, durarono poco
Questa liberazione dagli orari, dalle rigidità della produzione, questa uscita dalle catene di montaggio e questa entrata nel lavoro in rete, alla lunga, avrebbe riprodotto, di nuovo, una sensazione di prigionia e, di nuovo, una condizione da operai sociali e da tecnici informatici che adesso lavoravano alla tastiera dei PC con prodotti immateriali, informazioni, piattaforme, programmi di simulazioni virtuali.
Adesso era possibile “progettare un oggetto a Milano, tagliare i materiali in Indonesia, assemblarli virtualmente a Rio de Janeiro e commercializzarli a Birmingham” (come spiegava F. Berardi ne “La fabbrica dell’infelicità”, Derive Approdi) con, in aggiunta, una situazione di precarietà e di non garanzia.
Gli orari erano relativamente liberi, proprio come era stato richiesto, nessuno obbligava nessuno a entrare e a uscire a comando, né a indossare una tuta, e nemmeno ad andare in fabbrica o in ufficio, e se si preferiva il lavoro agile in smart working, da casa o dal bar, si era liberi di farlo. Ma, col tempo, la conseguenza fu che, i pochi fortunati, dal lavoro, non uscivano mai, e gli altri, dovevano inventarselo, con il lavoro autonomo, le partite IVA e le collaborazioni esterne.
Nel frattempo, se il lavoro industriale era stato liquidato, al suo posto era stato introdotto il consumo industriale, infatti nelle periferie, al posto delle fabbriche, furono costruiti, in men che non si dica, enormi centri commerciali.
Viaggi virtuali
La velocità delle nuove tecnologie, in pochissimo tempo, avrebbe prodotto un’integrazione economica globalizzata, ma anche una omologazione dei modelli di consumo. L’altrove, l’altro, fu consumato, cancellando diversità e identità. Quello che si stava consumando rapidamente, quindi, era la diversità. Non c’era più un altrove, non c’erano più gli altri. Tutti erano stati integrati in un destino comune, attraverso un consumo comune.
https://www.inchiestasicilia.com/intelligenza-artificiale-il-futuro-prossimo-venturo/Quando la rete prospettò la libertà di spostarsi nello spazio virtuale, per un momento, era sembrato, in effetti, che questa possibilità di connessione potesse compensare la mancanza di alternative materiali al nostro mondo a cui la globalizzazione ci aveva condannati. I social sembravano offrire questa illusione del viaggio, della conoscenza, in cambio della consegna dei nostri profili.
Ma, dopo qualche anno, avremmo scoperto la logica del Gate, che consisteva nel fatto che ognuno incontrava e interagiva in rete sempre le stesse persone e, inoltre, che le relazioni erano del tutto convenzionali. Come in un aeroporto, all’imbarco, ognuno era destinato a un gate con un certo numero di compagni di viaggio, alla fine, poche decine e tutte simili fra loro, per attività, gusti, città di provenienza, tendenze culturali, politiche, hobby, ecc.
Si era ridefinito uno spazio virtuale che, in realtà, era uno spazio separato, per gruppi omogenei e, soprattutto, chiuso. Per scongiurare che crescesse questa percezione di reclusione, questo senso di asfissia, furono allora introdotti nuovi escamotage che potessero soddisfare il persistente bisogno di libertà e di viaggi reali.
Viaggi e consumi materiali low cost
Per esempio, sul piano materiale, fu organizzata un’offerta di viaggi, servizi e consumi low cost, anche a causa della crisi del lavoro e della natura precaria e temporanea del lavoro. Fu un immediato successo, e cambiò molte abitudini. Anziani, studenti, gente comune, poteva finalmente viaggiare in aereo e, in pochi minuti, essere ovunque in Europa; così le merci, che partivano e arrivavano da tutte le latitudini. Pochi bagagli al seguito e uno spazio comune; grazie a Schengen si consentiva a più di 400 milioni di persone di circolare liberamente tra i paesi europei senza sottoporsi ai controlli di frontiera.
Semplice e pratico
Il dilatarsi del mercato low cost, dai voli aerei ai discount alimentari, dalle catene di vestiti in franchising ai ristoranti stile Mac Donald, questa offerta globalizzata, questo spingere per un consumo di massa, uniformava, però, verso il basso la domanda e, inoltre, portava con sé alcune conseguenze sgradevoli. Per esempio, una inevitabile omologazione brutale delle mode, dei gusti e dei consumi, che gradualmente si rifletteva sulle opinioni e sulle culture. In breve, anche il linguaggio subì una progressiva semplificazione.
Grazie a una comunicazione col bit, saremmo entrati in un mondo distopico in cui tutta la quantità di informazioni, di incertezze, di complessità, si risolveva sempre tra due alternative: aperto o chiuso, acceso o spento, zero o uno, ecc. Il like, ormai, diceva tutto e niente, così come il numero di parole, la ripetizione dei termini, misurava la leggibilità. La soglia di attenzione, di resistenza alla lettura, si ridusse a poche frasi e pochi minuti. Una società col Bignami in rete avanzava spavalda, con idee chiare e certezze risolute. Senza più dubbi. E se gli altri non fossero stati d’accordo, era possibile eliminarli, cancellarli, bloccandoli e risolvendo così ogni conflitto.
Conformi
Gradualmente, il mercato globalizzato delle merci e la comunicazione social per liste di amici omogenei stava producendo un conformismo delle idee e dei gusti, che rispecchiavano questo consumo standard. Questa uniformità era così totalizzante e persuasiva che stava producendo anche una equazione, secondo la quale, chi era diverso era vecchio, minore, arretrato, straniero e pericoloso, forse nemico. D
’altra parte, come altro si traduce un tale processo di conformismo dei gusti e dei consumi, sul piano socioculturale, se non, con qualunquismo (per degrado, da popolo a pubblico/consumatori/utenti) e con populismo/sovranismo (per reazione e difesa della identità minacciata)?
Anonimi e invisibili
E, come si traduce, sul piano politico, tutta questa massificazione/degradazione collettiva che rende tutti vulnerabili e invisibili, se non, con una coerente, e conseguente, domanda autoritaria in nome di un ipotetico riscatto? O di qualcuno che possa salvarci dall’inesistenza, dall’anonimato e dall’insignificanza?
Ma questo aumento della fragilità esistenziale stava producendo intolleranza e aggressività. Il bisogno di certezze assolute stava eliminando ogni dubbio e ogni possibilità di scambio e di cambiamento e tutti sembravamo asserragliati alle proprie convinzioni come temessimo di essere trascinati e dispersi.
Per di più, nonostante questa soluzione di vita low cost inizialmente sembrasse una soluzione, in realtà anch’essa, dal punto di vista dello sviluppo economico, sembrava carico di cattivi presagi. Infatti, nonostante i prodotti “cinesi”, gli outlet e i discount con prodotti senza marca, destinati ai consumatori poveri, l’inflazione cresceva e i consumi si riducevano.
Dal lavoro delle fabbriche ai centri commerciali
La globalizzazione dei mercati e dei consumi, dopo un primo momento di eccitazione, rischiava di riprodurre un mondo chiuso con il rischio, di nuovo, di riprodurre una sensazione di claustrofobia, una percezione di prigionia. Perciò, era urgente scongiurare un logoramento dalla ripetitività dei consumi ed evitare che crescesse l’idea di una percezione totalitaria e di costrizione della libertà.
Si, viaggiare. Forse volare
Una delle innovazioni più interessanti della new economy era stata quella, secondo cui, fosse possibile viaggiare attraverso il consumo. Cioè, entrare in contatto e identificandosi con i propri fans condividendo le merci con testimonial di successo (Key People) e, in generale, fare esperienze mangiando un hamburger con Tom Cruise, guidando l’auto di Brad Pitt, usando lo stesso profumo di Angelina Jolie.
L’idea era proprio quella di sviluppare il consumo come esperienza di viaggio in compagnia dei nostri miti, in modo da riscattare, per quanto in modo effimero e con pochi euro, la nostra vita anonima.
Era la stessa idea alla base, negli anni ‘80 e ’90, del consumo di massa della cocaina (Anna Paola Lacatena “La polvere sotto al tappeto”, Carocci ed). Il viaggio consisteva nel fatto che persone reali potessero diventare, anche se per un breve spazio di tempo, personaggi in una realtà virtuale. Era necessario fornire un servizio surrogato dell’evasione, alla libera uscita. Nell’impossibilità di identificarsi con ideali politici e con movimenti culturali, che ormai erano stati archiviati, il consumo, come esperienza personale e come rito, forniva una identificazione mitica che andasse oltre la quotidianità come fossimo in un film.
Anche l’acquisto di capi griffati, degli occhiali più costoso, dell’ultimo modello di smartphone, erano acquisti di beni di posizionamento che dovevano proiettare un’immagine di noi che fosse associata a qualcosa che avevamo sognato e a qualcuno che avevamo desiderato.
Inoltre, per evitare che il centro commerciale assumesse la forma spersonalizzata del non luogo alienante che era stata la fabbrica da cui tutti si erano allontanati , l’idea del non-luogo commerciale doveva essere, al contrario, attrattiva.
Tuttavia, c’erano alcune similitudini tra il centro commerciale e la fabbrica. Così come la catena di montaggio della fabbrica presupponeva una logica nella sequenza delle fasi di assemblamento produttivo, il centro commerciale è organizzato con una logica di priorità nella catena dell’offerta al consumo. Niente era lasciato al caso, come poteva sembrare.
Al contrario che nella produzione, nei consumi, si dava priorità ai prodotti più inutili, infatti, all’ingresso del centro commerciale erano i prodotti superflui e solo alla fine quelli necessari.
Tuttavia, le cose non andavano come sperato, la crisi economica era costante e la povertà cresceva, ma si continuava, come se niente fosse, ad aumentare la spinta mediatica per sollecitare falsi bisogni e accentuare la dipendenza dei consumi.
E, di fronte a questo obiettivo di induzione al consumo, costi quel che costi, non vi erano scrupoli o limitazioni etiche che tenessero. L’insoddisfazione latente, però, non era del tutto un male, infatti stava producendo una educazione alla dipendenza dai consumi come compensazione. Così come ricordava Serge Latouche, “Una società felice consuma poco; per indurre a consumare occorre creare insoddisfazione sollecitando aspettative, realizzando abitudini e suggerendo spazi mentali (e merci di consumo nda) di conforto e di compensazione”.
Just do it (fallo e basta)
Per accentuare ancora questa spinta al consumo, si disseminarono nella società una serie ani o esche, una rete di dipendenze e di fidelizzazioni nella quale l’utente-consumatore veniva intrappolato senza grandi possibilità di potersi sottrarre (per esempio, la sottoscrizione di contratti con gestori di telefonia mobile o di TV satellitari è molto semplice, ma rescindere quel contratto è sempre molto complesso).
A questo scopo, si usavano varie strategie e “dottrine militari” di conquista (profilazione per mirare il target), di invasione (persuasione con messaggi ripetuti a intervalli costanti) e di detenzione (fidelizzazione e creazione del vincolo), dalla teoria delle 4 P (Product (prodotto), ovvero il bene o servizio commercializzato; Price (prezzo), il prezzo con il quale viene messo in commercio; Placement (luogo), il luogo (fisico o virtuale) nel quale il bene o servizio viene realizzato; Promotion (promozione), tutte le attività di promozione per creare valore attorno al prodotto) al CRM (Customer Relationship Management (strategico, analitico, operativo, collaborativo) che comprende l’insieme di attività di raccolta e gestione dei dati dal mercato, finalizzati a coltivare relazioni di lungo periodo con la clientela) al B2B (o b to b, legato alla natura degli scambi commerciali di prodotti e servizi fra gli operatori di un mercato).
Nello specifico, il business to business si riferisce al commercio interaziendale, cioè alle transazioni fra produttori di beni e servizi, professionisti, enti pubblici e al B2C (il rapporto commerciale fra l’azienda e il consumatore finale, destinatario del consumo del prodotto o servizio acquistato)
Un uso efficace del CRM (Customer Relationship Management) permette, ad esempio, di adottare una comunicazione personalizzata per ciascun cliente. Se la soddisfazione del cliente sarà elevata, le relazioni saranno durevoli e si otterrà, in cambio, fedeltà, crescente propensione agli acquisti, e sponsorship, anche attraverso il passaparola.
La strategia di marketing è, dunque, tutta incentrata sulla caccia del cliente attraverso la conoscenza delle sue abitudini; perciò, è necessario attivare una strategia invasiva di profilazione molto aggressiva. Lo slogan più riuscito era quello della Nike, “Fallo e basta”. Il CRM identificava, appunto, le preferenze sui prodotti e i comportamenti di acquisto relativi al singolo cliente, di conseguenza, orientava l’attività del marketing rivolta a personalizzare la comunicazione e le attività promozionali verso quel cliente. Il legame era, quindi, diretto e bi-direzionale.
Sarà il personale delle vendite, anche attraverso la distribuzione della carta fidelity, giustificata dall’accesso a offerte e prodotti scontati, quello addetto ad aumentare l’efficacia del contatto commerciale, consentendo al management di analizzare i dati sulle interazioni fatte da un cliente (acquisti, resi, richieste tecniche, ecc.…). In questo modo crescevano le opportunità di vendita per l’azienda, con offerte mirate sulla base delle preferenze espresse da ogni specifico cliente.
Naturalmente questo produceva anche una analisi rovesciata e cioè, sulla base delle preferenze dei prodotti e servizi espressi dai clienti, era possibile risalire a uno “screening” dei clienti che venivano schedati per tipologie di età, reddito, professioni, livello di formazione, ecc., ed era altresì possibile associare tra loro i consumatori e gli utenti per orientamenti comuni e, infine, associare i consumatori a tipologie e fasce di prodotti e servizi, così come fanno anche le piattaforme quando chiedono di accettare i cookies per salvare le preferenze di ognuno, o quando si aprono profili social. Questa profilazione accurata realizza un data-base di enorme valore strategico di performance aziendale che viene continuamente aggiornato e può essere trasferito (venduto) ad agenzie pubblicitarie, a partiti politici o ad altre imprese.
Dai centri commerciali ai parchi divertimento
Ma il salto di qualità, rispetto ai centri commerciali, avvenne con l’ideazione dei parchi divertimento, tematici o meno. La novità essenziale era data dal fatto che il consumo non era più riferito a una merce reale, per quanto indotto da un brand virtuale o da un testimonial di successo, ma si andava oltre; la merce era essa stessa smaterializzata. La merce consisteva nell’offerta di evasione, della fuga, dell’ora d’aria di libertà. Era questo che si acquistava.
…”così il viaggio Disneyland è risultato essere il turismo al quadrato, la quintessenza del turismo: quel che veniamo a visitare non esiste. Noi vi facciamo l’esperienza di pura libertà, senza oggetto, senza ragione, senza posta in gioco (…). La gratuità assoluta” (Marc Augé, Disneyland ed altri non luoghi, Bollati Boringhieri pag. 25).
L’idea di poter addirittura interagire con personaggi e di entrare fisicamente in un mondo fantastico produceva una reale trasposizione nel tempo, più che nello spazio, così come era avvenuto prima.
Il viaggio immaginario nel tempo produceva una completa decontestualizzazione, ci sottraeva alla realtà, non sulla base di una distanza spaziale e di territori ma ci proiettava nel passato o nel futuro, “in un paesaggio perduto tra passato senza traccia e futuro senza forma” ( Marc Augé, “Disneyland ed altri non luoghi”, Bollati Boringhieri, pag. 25).
Dai parchi divertimento alle città d’arte e alle location di natura
Questa dimensione artificiale di un mondo fantastico, tuttavia, non era solo confinata nei parchi tematici, dove, tuttavia, si è sperimentato il modello di evasione concentrata, ma è stato messo a regime con la trasformazione delle città occidentali, da città fabbriche a città turistiche, dove non si produce più e dove non si risiede più, ma dove si va in visita e si consuma arte, cultura, storia.
In Italia La cultura, nel 2022, ha generato in Italia complessivamente un valore aggiunto pari a 95,5 miliardi di euro, in aumento del +6,8% rispetto all’anno precedente e del +4,4% rispetto al 2019.
“L’aria del tempo” ha profondamente modificato luoghi e città, sottraendo loro vita reale e confezionandole nella forma storica, culturale, spettacolare.
Questo mondo dei consumi che trasforma i patrimoni in merci, ha tolto la vita reale alle città, trasformandole in spazi attrezzati d’arte, natura e cultura. E città come palcoscenico per una esperienza immersiva, nel quartiere arabo della Kalsa, nel percorso arabo normanno, nei sotterranei dei Beati Paoli, dove, la finzione culturale, come in teatro, garantiva il trasferimento fisico nel tempo, almeno per poche ore, il tempo di respirare.
I centri delle città, soprattutto quelle con un rilevante patrimonio storico culturale, (Roma, Palermo, Napoli, Parigi, Madrid Marsiglia, Barcellona, Berlino, ecc.), ma anche quelle con innovazioni urbanistiche e di nuova tendenza (New York) o con industrie dell’intrattenimento annesse (Los Angeles, Las Vegas), hanno la stessa identica funzione di rappresentare i non luoghi e di autorizzare i viaggi nel tempo.
Lo stesso accade nei borghi dell’Appennino, al Circolo polare Artico, nella Terra del fuoco, in Amazzonia, in Medio Oriente (Petra, Beirut, Il Cairo), nel Maghreb… ecc.
Secondo il rapporto Ecotour (Osservatorio permanente sul turismo natura), il “sun and sand” (la sabbia e il sole) in Italia costituisce sempre una attrattiva di notevole peso per l’apporto valutario. Nello stesso tempo, è cresciuta in modo esponenziale la domanda di turismo nei centri minori, specialmente nel Mezzogiorno dove esiste un patrimonio artistico e culturale rilevante, ma la particolare natura dell’offerta turistica italiana, porta inevitabilmente alla richiesta di un prodotto quasi sempre multiplo in cui all’aspetto artistico viene associata l’eno-gastronomia, lo shopping, la montagna, il lago, il turismo balneare fino alle terme e, naturalmente, la natura e il paesaggio.
Ogni anno entrano in Italia circa 35 milioni di turisti stranieri sempre più attenti al binomio ambiente e paesaggio. Questo fenomeno si evidenzia osservando il vigoroso impulso delle proposte, associate agli aspetti culturali come “special interest holidays” e “turismo eno-gastronomico” che registrano, insieme alla proposta culturale in senso stretto, gli incrementi più alti, soprattutto al sud, dove gli aeroporti sono sempre più sovraffollati. Già nei primi anni del 2000 si calcolavano 1.265.483 arrivi di stranieri nelle località italiane a cui è stata attribuita, come tipologia prevalente, quella di “Parchi e Natura”, con 6.395.683 presenze che rappresentano una permanenza media di 5 giorni. Sul movimento totale di turisti stranieri questi valori rappresentano il 3,7% degli arrivi ed il 4,5 % delle presenze.
Vent’anni dopo, nel 2022 questa cifra era cresciuta fino ai 45,4 milioni di presenze – di cui circa il 54% di italiani – e aveva registrato una crescita rispetto ai volumi del 2021 dell’8%, confermando il trend già positivo registrato nel 2021 (+38% rispetto al 2020).
Non è più importante il lavoro, non è una vergogna essere disoccupati, così come lo era nel secolo scorso; oggi la vergogna è non poter partire per le vacanze, non poter consumare, non possedere l’ultimo IPhone, non poter partecipare all’aperitivo sui Navigli o in via Maqueda. Beni di posizionamento e rituali di partecipazione, si chiamano, al costo di indebitarsi. La prospettiva? Stasera, il prossimo week end, le prossime vacanze. Viviamo questo eterno presente, la vita è adesso. Il resto non conta.
C’era una volta, una generazione che, alla fine degli anni ’70 del ‘900, si era battuta per il rifiuto del lavoro e per la voglia di libertà. Era stata accontentata.