Con “Storia di Salvatore Giuliano”, per la prima volta a Palermo dopo più di 20 anni di successi, Nino Racco riprende magistralmente il cunto. E fa rivivere il cantastorie
di Alessia Franco
Si chiama semplicemente “Storia di Salvatore Giuliano”. Non molti sanno che questo cunto di Nino Racco ha girato per tutta l’Italia, e ne ha varcato i confini, fin dal 1989. E non ha raggiunto Palermo che in questi giorni, ospitato dal teatro Atlante.
A chi chiede perché, il cantastorie calabrese (che nello spettacolo è anche drammaturgo e unico attore) azzarda questa risposta: «Probabilmente perché sono sempre stato fuori dai grandi circuiti teatrali». Una risposta semplice, quasi ovvia, come il titolo di questa sua operetta in cui si fondono le grandi tradizioni dei cantastorie come Ciccio Busacca, Vito Santangelo e Orazio Strano come in un montaggio che non resta statico con il trascorrere degli anni. Ecco che la storia non è più raccontata da mani, voce e chitarra: i tre episodi di cui è composto si sviluppano negli anni, si arricchiscono dell’arte sapiente delle ombre cinesi. E per passare da una dimensione all’altra non occorre che un lenzuolo, in una scena veramente essenziale.
Nonostante le numerose revisioni della storia di Salvatore Giuliano, Nino Racco non si è mai curato di rivedere la trama: «Non è questo l’oggetto della mia ricerca, quanto piuttosto ritrovare la figura del cantastorie, che prescinde dai tempi e di luoghi. E che per questo si ritrova in tutte le culture».
Nel racconto, rappresentato in più di mille repliche, fanno capolino le maschere della commedia dell’arte e suggestioni arabeggianti. Ricordo, mai del tutto sopito, di un tempo in cui le parole offrivano conforto e guarigione più delle medicine.