Reduci da un periodo drammatico, tutti noi siamo stati protagonisti e al tempo stesso spettatori passivi di una pandemia che ha inevitabilmente stravolto le nostre abitudini di vita e ristretto enormemente la propria libertà individuale. Chi di noi potrà scardinare dalla propria memoria storica un avvenimento come questo, quando “solchi di paura” sono rimasti incisi nella nostra mente? Non sarà facile, ma dovremo farlo o comunque imparare a conviverci perché, come si suol dire, “chi si ferma è perduto”. Ed oggi che ci troviamo nella cosiddetta fase 2 ci stiamo già provando, sebbene molti di noi sull’onda di sentimenti ambivalenti. Sentimenti che, se da un lato ci spingono verso il mondo esterno alla ricerca di una normalità perduta, dall’altro ci lasciano ancora sperimentare la paura del contagio e dell’incognita su più fronti, non per ultimo quello economico. Per molti versi in questo momento ci sentiamo dunque anime vaghe dentro una dimensione dai contorni poco definiti, all’interno della quale disperatamente cerchiamo coordinate nuove cui aggrapparci nella speranza di ripristinare funzionali equilibri, o di crearne nuovi.
La vita oltre la pandemia
Riabilitarci al mondo dunque significherà innanzitutto ricostituire dentro di noi una dimensione relazionale, “amputata” per troppo tempo da un distanziamento fisico imposto da opportune regole sanitarie. Ci è toccato infatti negli ultimi tempi inibire una parte di noi istintiva ed ancestrale: il bisogno di vicinanza fisica all’altro. Nasciamo così: siamo biologicamente predisposti per soddisfare tale esigenza. Il contatto con l’altro è per il nostro organismo fonte di preziosi ormoni quali ad esempio l’ossitocina, la dopamina e l’endorfina, senza i quali si favorisce invece un innalzamento dei livelli di cortisolo, ormone dello stress responsabile dell’indebolimento del nostro sistema immunitario. È il nostro cervello a richiederci il soddisfacimento di tale bisogno. Ed il censurare questa parte di noi ha comportato un’enorme forzatura con risvolti psicologici non indifferenti, che hanno preso la forma di stati emotivi quali la tristezza, la frustrazione, o ancora, come – la definiva S. Freud – la melanconìa (tristezza mista ad ansia).
L’assenza dell’abbraccio
L’abbraccio, un bacio o anche una semplice stretta di mano, concepiti naturalmente come meravigliosi mezzi attraverso cui garantire la continuità dei rapporti umani, si sono dunque rapidamente trasformati, in un perverso paradosso, in strumenti di minaccia della propria integrità fisica e psicologica.
Sia chiaro dunque, abbiamo rinunciato ad una parte fondamentale di noi stessi, sperimentando inevitabilmente un vuoto relazionale inedito prima d’ora, che oggi vorremmo gradualmente colmare riappropriandoci di tale dimensione relazionale .
Riabilitarci al mondo non farà tuttavia parte di un processo automatico e immediato come ingenuamente si può credere, ma al contrario richiederà da parte nostra l’impiego di risorse interne indispensabili per una graduale riorganizzazione della sfera socio-relazionale e del nostro spazio vitale. La gradualità di tale processo è dovuta agli effetti a lungo termine prodotti dal lockdown e più precisamente dallo spettro della malattia e della morte che incombeva su di noi sul piano psicologico. Tali effetti agiranno durante questo processo di ripresa come veri e propri freni inibitori. Non a caso parlavo prima di “solchi di paura”. Inevitabilmente, infatti, la nostra mente ha generato in questi mesi per difesa un sistema interno di allarme e vigilanza, che si attiva e continuerà ad attivarsi per ancora molto altro tempo, anche oltre la fine della pandemia, tutte le volte che percepiremo una forma di pericolo come può esserlo l’estraneo o il conoscente che ci si avvicina valicando la fatidica distanza di un metro, o che distrattamente ci toccherà.
Un allerta istintivo
Spesso in tal senso ho avuto modo in queste ultime settimane di osservare persone, la cui distanza tra loro se si accorciava eccessivamente anche solo per qualche istante durante, ad esempio, la coda davanti ad un negozio, scatenava un atteggiamento di ipervigilanza percepibile, senza bisogno di parole, in un irrigidimento dello sguardo o dell’espressione del volto o ancora della postura corporea. Alla base di tali comportamenti è presente un meccanismo di allerta, che da un lato è funzionale poiché ci preserva da un potenziale pericolo (il contagio). Dall’altro, tuttavia, edulcora la percezione della realtà intorno a noi, invalidandoci socialmente e vanificando qualunque sforzo di ritornare a esistere in mezzo agli altri. Si rivela pertanto necessario per ognuno di noi porre attenzione in maniera cosciente a quei possibili meccanismi inconsci che possono interferire negativamente, se usati in modo ossessivo, su questa delicata transizione di vita, dalla Fase 1 alla Fase 2, valutandoli possibilmente come eccessivi, e sulla base di ciò regolandone l’entità e l’intensità emotiva. In altre parole, prudenza sì, uso massiccio e continuo dell’ansia no!
Ma se da un lato c’è chi fa e dovrà fare i conti con un’ansia a tratti paralizzante quando esce da casa, dall’altro, in un fenomeno sociale di tipo “split” molto curioso, è possibile accorgersi di un’altra fetta della popolazione che sta reagendo in maniera diametralmente opposta.
Bisogno di relazioni sociali
Coloro infatti che dal primo giorno della Fase 2 si sono riversati euforicamente per le strade, nei parchi o in spieggia, ignorando volutamente la presenza massiccia di persone accanto a sé, che riduceva spesso di gran lunga le distanze di sicurezza, ha mostrato inevitabilmente gli effetti di un’implosione psicologica avvenuta durante il periodo della quarantena per la pandemia, non più contenibile a seguito dell’allargamento della maglia delle restrizioni, che ha lasciato emergere in molti la negazione di una parte della realtà: l’esistenza ancora, nonostante i dati incoraggianti nella nostra regione, di un potenziale rischio di ri-contagio.
Sarebbe in realtà ottimale per ciascuno di noi, quindi, affrontare questo delicato momento post pandemia con equilibrio, doveroso atteggiamento auto-critico, ma anche sano entusiasmo di re-immergerci nel mondo esterno, attenendoci sempre alle linee guida base fornite dalle autorità sanitarie. Sarà opportuno farlo se vogliamo ritornare prima possibile e limitando i danni a vivere in una condizione di felice libertà.
Dr.ssa Gabriella Scaduto, Psicologa e psicoterapeuta a Palermo