Un preoccupante paradigma di quei processi intrapsichici di rifiuto della realtà circostante ormai in fase di inarrestabile espansione in tutti quei paesi più avanzati ove i ritmi della vita quotidiana (cosiddetta “produttiva”) vanno acquisendo cadenze sempre più incalzanti. Un viaggio tra gli Hikikomori (coloro che vivono rintanati a casa), attraverso la mostra di Om Bosser
Di Salvo Ferlito
Un’accurata disamina dell’alienazione umana posta in essere attraverso l’occhio “clinico” delle arti visuali. Una vera e propria “casistica”, quella elencata da Om Bosser (che non per niente è medico e per di più studioso di psicoanalisi), in grado di offrire una puntuale panoramica su quelle dinamiche di distacco e decontestualizzazione dall’ambito collettivo che paiono ricorrere con sempre maggior frequenza nella nostra società.
E’ questo l’obiettivo perseguito dall’artista torinese con Hikikomori (coloro che vivono rintanati in casa), la mostra di dipinti ospitata alla galleria Studio 71 nel maggio scorso, non a caso tutta incentrata su quell’allarmante (e patologico) fenomeno di auto-confinamento entro le mura domestiche che va diffondendosi, a mo’ di incontrollabile infezione, nello spersonalizzante tessuto urbanistico e sociale delle metropoli nipponiche.
Frutto di un crescente sentimento di inadeguatezza alle difficoltà della vita relazionale, spesso alimentato da forme di insensato bullismo o di esasperata competizione, lo Hikikomori, pur essendo connotato da un radicalismo e da un estremismo tipicamente giapponesi, è tuttavia un preoccupante paradigma di quei processi intrapsichici di rifiuto della realtà circostante ormai in fase di inarrestabile espansione in tutti quei paesi più avanzati ove i ritmi della vita quotidiana (cosiddetta “produttiva”) vanno acquisendo cadenze sempre più incalzanti.
Isolati in uno stato di afasica incomunicabilità, lo sguardo fisso verso gli osservatori o perso in direzione d’un altrove non meglio definito, talora abbandonati in un sonno indifeso o in una nudità incurantemente ostentata, i personaggi effigiati “fotograficamente” da Om Bosser (con un procedimento basato sulla trasposizione su tela, tramite computer, di piccoli e dettagliati disegni o di vere e proprie fotografie) si ergono dunque a “casi” conclamati d’un disagio e d’un malessere dal difficile (e forse impossibile) trattamento terapeutico.
A metà strada fra la denuncia civile e la rassegnata presa d’atto, questa serie di opere realizzate da Bosser costituisce comunque la compiuta espressione della capacità (e in fondo anche della necessità), per ogni artista degno di tal appellativo, di calarsi nel flusso dell’attualità, senza eluderne gli aspetti più controversi, inquietanti ed anche sgradevoli. Un documento, questo elaborato dall’artista torinese, in grado di rappresentare fedelmente lo spirito del tempo o più rassegnatamente null’altro che il miserevole stato delle cose.