di Aldo Gerbino
D’Ercole, d’Eracle o d’Alcide. E di Alcide, in quel vago dizionarietto di Mitologia, che Carlo Barbini pubblicava nel 1875 con l’attributo di ‘nuovo’ nella città di Milano, è detto che in tal modo veniva chiamato Ercole “per esprimere la sua forza non meno che la virtù”. Forza, dunque, ‘non meno che la virtù’; così mi piace coniugare, proprio per il vólto inciso di Ercole Pignatelli, le connotazioni anatomiche, le mobili qualità fisiognomiche dei suoi visi multipli: canzonatori, irridenti, intrisi per maschere surreali, picaresche e che lui, l’Ercole leccese, m’invia, a dispetto del suo ottuagenario approdo e con spedita agilità digitale, da un iPad. Impronta decisa per un’anatomia dal vólto greco, pasciuto in quella terra Messapia percorsa da venti grecanici, letti, gustati, per salinità e architettonici candori salentini, già nei dardi fiammeggianti degli occhi, nel folto dei suoi cespugliosi sopraccigli, nello sguardo beffardo e gioioso, in quelle posture che ci conducono nel vortice d’un grido, d’un gesto ampio dal corpo saldamente piantato su classiche impronte. E, sempre per coniugazioni, mi piace raccontare di Ercole, icona d’artista che attinge all’ungarettiana assimilazione di “forza e di grazia”, a quelle stessa ‘forza’ e a quella ‘grazia’ che vanno di pari passo col mito di Dafne per il quale d’Annunzio, nella splendente figura dell’oleandro, lo dice raccolto “per redimer” le sue “tempie di rose e di alloro in un ramo”. E sappiamo, d’altronde, come s’illumina Ercole per una foglia che trasferisce, intatta e trasfigurata, nei suoi dipinti, o per superfici d’affresco, o in che modo redime le sue tempie di fiori, pampini, bacche rossicce, chicchi di melagrane sanguinanti, rugginosi frutti quando essi travasano o s’innalzano, come per antiche fabulae, lungo braccia arboree voluttuosamente ramificate dalla terra, quasi a toccare nubi neobarocche, schiumose, per poi raggrumarsi, nel suo stesso corpo o in quello addensato ed espanso delle sue figure femminili, colte nella loro ipertrofica spazialità, quasi antigravitazionale, linfatica, terrestre.
Di certo, Ercole, – uomo nel nome e nei fatti – attinge a quell’ “eroe tutto forza”, come lo definisce Cocchiara, discendente dall’ineguagliabile valore di Pèrseo; lui, figlio di Zeus e Alcmena, è forse uno dei nomi più saldi nel fluviale scorrere dei secoli. Lui, eroe dalle spalle ferme e vigorose, vestite – come vuole il mito – da una pelle di leone, tenace nel petto muscoloso, nel braccio scattante, nella mano possente, offre così l’immagine di sé. Ma egli dovette anche avere un aspetto austero, liquidamente pensoso: un’anima incline alla malinconia ed alla nostalgia, per quella sua vita “travagliatissima ed errabonda”. Ma chi conosce, più dell’artista, il valore sconfortante e rigenerante dell’erranza? E, tra le sue notissime fatiche, di certo si riversa qualcosa nel succo pittorico del nostro Ercole, soprattutto dall’undicesimo impegno, quello in cui appaiono i pomi aurei delle Espèridi (quei pomi, dono di Era alle Ninfe dell’Occidente), e che in tutto il suo tessuto pittorico si accendono d’una inesauribile vitalità espressiva. Sappiamo come nelle sue dodici fatiche l’Ercole della mitologia tocchi geograficamente luoghi disparati: da Nèmea a Lerna ad Erimanto; dall’Arcàdia al monte Mènalo; dal lago Stìnfalo fino all’Elide; da Creta alla Tracia; dalla Libia alla Gallia e persino in Italia, nell’Aventino. Mai a memoria d’uomo o degli dèi si portò nell’area in cui sarebbe sorta Milano, e dove, invece, il nostro Ercole del terzo millennio compie, appunto, la sua fatica nei recinti della Triennale meneghina, con un’agile e ponderosa ‘live performance’. Sappiamo tutti che il mitico semidio fu da Zeus premiato con il dono della sposa e coppiera Ebe, dea dell’eterna giovinezza; ma poi – mi pare – che egli, l’odierno Alcide, si fosse ritratto da questo destino, se, in una delle immagini pittoriche del suo vólto appare, come per quegli uccelli che volteggiavano voraci e curiosi nelle acque dello Stìnfalo, munito d’un becco bronzeo al pari delle ali, tutti strumenti anatomici a tutela da celesti tentazioni. Sì, nessun dio dell’Olimpo, vuol tornare – per quel che io ne sappia – in terra, ma Ercole Pignatelli vuole caparbiamente restarci, con la sua faccia ovale di aureo guerriero, con le sue pupille rese indenni dal tempo e che lo sommuovono, in questa Milano sua città d’adozione, come a voler raccogliere anche un sol frutto a sintetizzarne la sua storia di arte e di vita. Tale frutto (pomo abbagliante o frantumi specchianti di melagrana o dionisiaci grappoli) illuminerà, nel solco tremulo e scintillante di radiolari e ctenofori, la rotta dove nacque Europa: dall’Adriatico all’Egeo: dritto nelle braccia del Bosforo bruciato dal sole, dipinto dai colori lanciati dalla tavolozza d’Ercole, attraverso gli inquieti bagliori di armi lucenti.