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Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Scorsese, regista universale

Il regista italo-americano ha riempito due generose giornate torinesi ricche di incontri, ricordi, proiezioni. E di genuino amore per il cinema

di Massimo Arciresi

Non sono molti i registi viventi (e pienamente operativi) che possano vantare il rispetto, la considerazione, si potrebbe dire senza tema di smentita il culto di cui è circondato Martin Scorsese. Il quasi ottantaduenne cineasta statunitense (di chiare e continuamente rivendicate – attraverso la sua arte o gli incontri pubblici – origini italiane) è stato protagonista di un paio di giornate celebrative a Torino, dove la sera del 7 ottobre, su iniziativa del Museo del Cinema presieduto da Enzo Ghigo e diretto dall’uscente Domenico De Gaetano, gli è stata consegnata da Giuseppe Tornatore, collega da lui assai stimato, e alla presenza di un “suo” attore, Willem Dafoe (L’ultima tentazione di Cristo, The Aviator) e dello scenografo Dante Ferretti (che ha allestito nove set del maestro), la prestigiosa Stella della Mole, ricevuta meno di una settimana prima da un altro grande nome, Jane Campion. Il giorno dopo, presso il locale cinema Massimo, si è tenuta un’attesa e prevedibilmente affollata masterclass, preceduta da un red carpet con abbondante rilascio di autografi e seguita dalla proiezione da tutto esaurito di Toro scatenato (1980), apripista di una mini-retrospettiva.

La tappa nel capoluogo piemontese fa parte di un itinerario che lo stesso ospite, nell’ambito della conferenza stampa organizzata nel pomeriggio della premiazione, ha definito “sentimentale”, vissuto con i propri familiari, compresi la moglie Helen Morris e la figlia che ha con lei, Francesca (l’ultima di tre, nell’arco di cinque matrimoni), con tappe a Roma e in Vaticano e nell’originaria Sicilia (i nonni paterni, con cognome Scozzese, poi storpiato dall’anagrafe straniera, sbarcarono oltreoceano a inizio Novecento), in particolare Ustica. Ne verrà fuori un documentario sugli antichi naufragi, dal probabile sapore di video-diario. E no, perfino se i suoi prossimi progetti (A Life of Jesus e il biopic su Sinatra che dovrebbe vedere DiCaprio nel ruolo principale) incontrassero difficoltà finanziarie, Marty, come lo chiamano gli amici, attualmente non intende ritirarsi.

Il concetto di viaggio

L’idea di spostarsi da un luogo all’altro, oltre a innervare tante trame filmiche, permea la passione cinefila di Scorsese, che non per niente ha intitolato i suoi lavori di approfondimento sulla settima arte Viaggio nel cinema americano e Il mio viaggio in Italia (ma anche la recente biografia a lui dedicata da Mary Pat Kelly s’intitola Un viaggio). Il film stesso è, per lo spettatore, un percorso, così come la sua realizzazione lo è per chi lo concepisce. Nel caso specifico, qui si tratta di un “narratore” che ama particolarmente passeggiare all’indietro («Ho capito cosa fosse Toro scatenato solo 25 anni dopo: lo sapevo mentre lo giravo, ma non ero in grado di decifrarlo»), rievocare il proprio passato e che non ha difficoltà ad ammettere che sono “siciliani” i suoi più lontani ricordi d’infanzia (senza disdegnarne di più recenti, come la visita nell’area archeologica di Morgantina), legati a doppio filo alle comunità di Little Italy (soprattutto quelle emigrate da Polizzi Generosa e da Ciminna) nelle quali crebbe il futuro autore di Quei bravi ragazzi.

E la prima, entusiasta, diffusa risposta di Martin ai giornalisti concerne la sua indiretta attività di conservatore e restauratore di opere a rischio, grazie al World Cinema Project (già World Cinema Foundation), ente no profit da lui promosso insieme ad altri giganti del settore (Lucas, Spielberg, Coppola, Eastwood, Kubrick), che a partire dagli anni ’90 (benché l’esigenza nascesse nei ’70, da spettatori voraci) rintraccia – bussando direttamente alle grandi case di produzione – e rimette a nuovo (a partire dai negativi) lungometraggi (e non solo) a rischio di scolorimento o autocombustione. A oggi sono circa 2000 i lavori recuperati. D’altronde, a sancire tale interesse, il Museo ha donato a Scorsese una copia digitale dell’amato Cabiria (1914), kolossal (in un’epoca in cui il Piemonte era il picco della nascente cinematografia italiana) dell’astigiano Giovanni Pastrone.

Martin Scorsese in “Hugo Cabret” (2011)

I pericoli della disinformazione per Scorsese

«Quando girai Gangs of New York, a Cinecittà, volevo indagare sull’“esperimento” governativo dell’immigrazione, sulla nascita di un Paese democratico. La suddivisione in gruppi etnici che c’era allora si ripropone oggi; c’è disinformazione, difficile prevedere se il sistema reggerà ancora tra qualche settimana».

Riguardo al rapporto dei giovani d’oggi con la settima arte, Scorsese aggiunge: «Quando eravamo ragazzi la nostra passione per il cinema aveva un peso, era perfino un modo dignitoso di dissentire. Adesso il mezzo evolve in varie direzioni. C’è la realtà virtuale, possiamo illuderci di assistere all’Orlando Furioso o all’Amleto all’interno dell’azione. Va così, e sta succedendo ora. Il risultato dipende sempre da quello che si vuole dire, sul piano estetico non so cosa diventerà. La chiave della conoscenza resta l’informazione: pensare, parlarne, domandare…» E riserva un cenno ai social: «Mia figlia mi ha spiegato come funziona Tik-Tok. Mi ha detto: “Fallo!”, e io l’ho fatto».

Il lato oscuro dell’umanità, i progetti sfumati, i piccoli schermi

«La violenza che mostro nei miei film fa parte di ciascuno di noi, soprattutto da giovani. Da piccolo l’ho vista, per strada, sotto aspetti differenti. Al cinema purtroppo a qualcuno “piace”, comunque è scomoda. Ne esistono pure delle versioni “civilizzate”, attraverso le parole. Basti pensare a Bill Hale (Robert De Niro), che in Killers of the Flower Moon ci appare accettabile grazie al suo eloquio».

Scorsese si sofferma pure sui soggetti mai realizzati. «Ce ne sono stati tanti, piuttosto costruttivi in termini di spettacolo, e non parlo della difficoltà di riprodurre l’epoca in cui erano ambientati: la mia preoccupazione rimane stabilire la composizione, quanti personaggi devono stare nell’inquadratura, dove piazzare la cinepresa, se deve muoversi… Immaginare la “gloria” del grande schermo, catturare l’epica.  Per esempio, con Gore Vidal, tre o quattro anni prima che uscisse Il gladiatore, volevamo fare qualcosa su Teodora, l’imperatrice di Bisanzio».

Infine Martin, che ha prodotto (e diretto gli episodi pilota) delle serie (Boardwalk Empire, Vinyl), riflette sul ruolo della televisione e delle piattaforme, che peraltro, tramite compromessi, hanno avuto una funzione decisiva per portare a termine le sue ultime due fatiche. «Per The Irishman la post-produzione, che richiedeva un’avanzata tecnica digitale per il ringiovanimento degli attori, era molto costosa, non si poteva fare a meno dell’apporto di Netflix. A dispetto della sua durata o di quella di Killers of the Flower Moon, ritengo che l’esperienza di visione in una sala (come vale per Bertolucci o Leone) sia diversa da quella casalinga. E preferisco una forma romanzata a una storia breve».

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