Gli avvocati sono sciacalli o i medici sono ignoranti?
Riceviamo e pubblichiamo il prezioso contributo sul tema dell’ Avvocato Salvatore Cristaldi del foro di Mazzara del Vallo
Con il proliferare delle cause per responsabilità medica questo interrogativo è divenuto molto frequente. La classe forense non sta attraversando un facile periodo e, pertanto, determinati casi di malasanità vengono considerati dal punto di vista professionale come una vera e propria manna dal cielo; si arriva a persuadere il cliente, destinatario di prestazioni sanitarie non brillanti, ad adire le vie legali con ogni mezzo, compresa la pressione psicologica.
Tuttavia, occorre sottolineare che quello fin qui esposto rappresenta soltanto un aspetto della problematica. Si tratta di un aspetto importante, ma limitarsi ad esso significherebbe accontentarsi di un’analisi parziale che non ne farebbe comprendere l’esatta portata.
Un’altra dimensione da considerare nel valutare il fenomeno delle numerose azioni legali contro gli esercenti le professioni sanitarie è la non adeguata preparazione professionale di quest’ultimi, spesso figli di un sistema malato, proprio della “Prima Repubblica”; un sistema clientelare nel quale molto spesso i posti di lavoro presso le strutture ospedaliere pubbliche venivano assegnati a coloro che potevano vantare un’amicizia con il politico in grado di esercitare la propria influenza sulle USL.
Ciò premesso, ci si chiede se la nuova normativa, contenuta nel c.d. decreto Balduzzi, sia adeguata ad arginare il fenomeno sin qui esaminato.
Chi scrive ritiene che la risposta debba essere negativa. Invero, l’articolo 3 del decreto Balduzzi (decreto legge n. 158 del 2012, convertito nella legge n. 189 del 2012), stabilisce che “ l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. A seguito di questo nuovo assetto normativo, le Sez. Unite della Cassazione si sono pronunciate in due occasioni: prima nella sentenza Pagano[1] e poi nella sentenza Cantore[2]. Da queste due decisioni emerge che l’esercente la professione sanitaria dovrà tenere conto delle peculiarità del caso specifico sottoposto alla sua cognizione per stabilire quando sia necessario distaccarsene.
In particolare nella sentenza Cantore la Cassazione specifica che “le linee guida, a differenza dei protocolli e delle cheek list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti. Esse, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico”[3]. A titolo esemplificativo, si pensi alla avversa reazione ad un farmaco da parte di un paziente risultante dalla relativa cartella clinica. In questo caso il sanitario, somministrando il farmaco, in ossequio alle linee guida o alle pratiche ritenute dalla comunità scientifica valide per la generalità dei casi, non sarebbe esente da responsabilità penale; tale responsabilità deriverebbe dalla sua negligenza, consistente proprio nel non avere consultato in maniera adeguata la cartella clinica del paziente sottoposto alle sue cure.
In definitiva, le linee guida non hanno valore assoluto e il loro rispetto non esclude in maniera certa la responsabilità del medico; esse, infatti, devono essere rapportate alle caratteristiche del caso concreto. Il medico non può limitarsi ad individuare le generiche linee guida e le pratiche raccomandate dalla comunità scientifica, ma deve avere la capacità di comprendere quando esse non devono essere applicate; per fare ciò è necessario che sia abbandonata la c.d. medicina difensiva e che prevalga la convinzione che la salute della persona deve essere l’obiettivo primario.
Appare chiaro quanto neppure l’intervento della Suprema Corte sia stato idoneo a risolvere, o quanto meno ad attenuare, il problema che riguarda, da un lato, l’intera classe medica, prigioniera di azioni legali spesso prive di ogni fondamento; dall’altro, i cittadini, in particolare i meno abbienti, che siano vittime di casi di malasanità. E’ormai noto, infatti, come tali episodi siano, spesso, derivanti, non soltanto dalla fatiscenza delle strutture pubbliche ma, in alcuni casi, dalle scarse competenze dei medici che in esse operano.
A parere di chi scrive, ancora una volta il legislatore italiano non è stato in grado di dettare una disciplina normativa dettagliata e adeguata alla delicatezza dell’argomento. In ossequio al principio di tassatività penale, si sarebbe dovuto stabilire, quanto meno con decreto ministeriale, quali siano le linee guida che i medici sono tenuti a seguire e quando i medesimi possono discostarsene rimanendo esenti da responsabilità penale.
Fino a quando non ci sarà un adeguamento normativo, diretto a stabilire con maggiore chiarezza quali siano le condotte consentite dalla legge e quali, invece, quelle penalmente sanzionabili, l’argomento relativo alla salute dei cittadini sarà dominato sempre dallo stesso quesito: gli avvocati sono sciacalli o i medici sono ignoranti?
[1] Cassazione penale, sez.IV, 24 gennaio-11 marzo 2103, n.11493.
2 Cassazione penale, sez.IV, sentenza 29 gennaio-9 aprile 2013, n.16237.
[3] Cassazione penale, sez.IV, n. 16237, cit.