Un’attenta e passionale ricognizione attorno e dietro La mia notte con Maud in un libro di Sandro Volpe. L’occasione per riparlare di un cineasta inimitabile: Éric Rohmer
di Massimo Arciresi
Éric Rohmer (1920-2010) è uno degli illustri rappresentanti della Nouvelle Vague, corrente culturale di rottura affermatasi in Francia intorno agli anni ’60 e rivelatasi seminale per le generazioni di registi a venire. Esponenti celebri, oltre al tuttora brillantemente attivo Godard, sono Truffaut e Chabrol seguiti da Rivette e Resnais, e qualcuno ritiene opportuno includere anche Malle e Vadim, tutti purtroppo passati a miglior vita. Creatore di serie di film a tema denominate Racconti morali, Commedie e proverbi, Racconti delle quattro stagioni, Rohmer, che si avvicinò alla settima arte in età matura, nel 1969 girò La mia notte con Maud, “cerniera” del primo di questi cicli (sentimentali e molto dialogati), curiosamente – ma non certo deprecabilmente, e non per questioni esclusive di stile – realizzato in b/n (la sua fatica precedente, La collezionista, era a colori, e lo sarebbero state pure le successive). A un titolo così nascostamente sfaccettato (in effetti, in originale si chiama Ma nuit chez Maud), Sandro Volpe, professore universitario di Teoria della Letteratura e Storia del Cinema, dedica l’agile volume La mia notte con Maud: un’analisi. Ritorno a Clermont-Ferrand (Kaplan, pp. 116, € 12), diviso, vedremo, in due parti non per forza distinte. Si tratta, fra l’altro, del debutto di una collana, Cinéma mon amour, diretta dallo stesso autore.
A partire da un sincero interesse – tramutatosi, nel corso dei decenni e delle visioni, in una passione che emerge progressivamente e “sopprime” qualsiasi freddezza espositiva – per la pellicola in ballo, Volpe propone un documentato approfondimento, incentrato su ciò che è stato redatto intorno all’opera (in riviste prestigiose, monografie e autobiografie) e su indagini personali, soffermandosi su alcune sequenze (corroborate da un valido supporto fotografico) e sul singolare percorso della sceneggiatura, rimaneggiata da una delle novelle che proprio il maestro scrisse in gioventù ma arrivò a pubblicare soltanto nei ’70 (quindi posteriormente all’uscita del lungometraggio). Un cammino “accidentato” che rivela qualche ripensamento e si fa paradigma delle differenze che devono intercorrere tra letteratura e cinema. La conveniente voce narrante (che poi sarebbe stata praticamente accantonata dalla poetica rohmeriana), la rinuncia al flashback, le motivazioni dei personaggi e le svolte delle loro vicende sono perciò osservate da varie angolazioni, in un’inesausta scoperta di dettagli che conferiscono un senso sempre più stratificato alla narrazione. Che di per sé appare semplice (ma cela un buon numero d’implicazioni, perfino apertamente filosofiche): un ingegnere cattolico (senza eccessiva convinzione) e piuttosto solitario (Jean-Louis Trintignant, carattere privo di un vero nome) s’imbatte durante il periodo natalizio in un vecchio sodale, Vidal (Antoine Vitez), che lo convince ad accompagnarlo a far visita all’attraente amica divorziata Maud (Françoise Fabian), con la quale il protagonista – che non l’aveva mai incontrata – trascorre del tempo da solo; poco dopo egli trova il coraggio di avvicinare una giovane donna, Françoise (Marie-Christine Barrault), già adocchiata da parecchio.
Un’avvincente lettura – a patto d’aver visto o rivisto il capolavoro in esame (due ore scarse spese bene) – che invita a porsi le domande giuste e vira, nella seconda e più breve porzione, verso una rivisitazione degli esterni che furono teatro delle riprese, a Clermont-Ferrand. Luoghi intatti o completamente mutati, irriconoscibili o intuibili, attraversati in un’esplorazione nostalgica che è la piacevole scusa per piazzare ulteriori, sapide riflessioni sull’oggetto dello studio (chi lo ama, non vuol più uscire da casa di Maud, si ripete). Un lavoro il cui valore è accresciuto dall’assoluta spontaneità della sua concezione, slegato com’è da qualsivoglia ricorrenza, che sia anniversario di nascita, morte o distribuzione. I cult movies, universali o individuali, non hanno date né vincoli.