Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Taranto cuore d’acciaio

Con una sentenza emessa il 13 settembre 2024 per la quale ci voleva qualcuno con il cuore d’acciaio, la Corte d’Assise d’Appello di Taranto, presieduta da Antonio Del Coco, ha annullato la sentenza di primo grado, espressa dalla Corte d’Assise nel maggio del 2021. Sospesi gli indennizzi, il processo è tutto da rifare. Morti, inquinamento, malati: non è successo niente. È stata la volontà di Dio, o la sfortuna.

di Victor Matteucci

La decisione di costruire il Centro siderurgico di Taranto fu presa nel 1959 (proprietà pubblica IRI e Finsider). L’impianto fu inaugurato ufficialmente il 10 aprile 1965. La scelta di Taranto era stata una scelta fondamentalmente politica, ma si scelse Taranto anche per le sue aree pianeggianti, perché era vicino al mare, per la disponibilità di calcare, di manodopera qualificata, nonché, per la sua ubicazione nel Mezzogiorno d’Italia, con annessa possibilità di creare posti di lavoro (43.000 tra diretti e indotto nel 1981) e, soprattutto, di usufruire di contributi statali. Nel 1970 a Taranto si concentrava il 41%  della produzione di Italsider, percentuale che, nel 1980, raggiunse il 79% . Nel 2005 erano 188 le imprese pugliesi dell’indotto ILVA, che fatturavano in totale 310 milioni di euro.

Le accuse

Se, tuttavia, la produzione aumentava, aumentavano anche le proteste per Il degrado ambientale e per i danni per la salute che avevano registrato una vistosa impennata del numero di morti e di malati di tumore. Nel 2012, dopo anni di proteste furono depositate, presso la Procura della Repubblica di Taranto, due perizie, una chimica e l’altra epidemiologica. Le accuse erano didisastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico. Sarebbero state particolarmente inquinanti i 70 ettari di parchi minerali per via delle polveri, che fungono da veicolanti dei gas nocivi, le cokerie che emettono soprattutto benzo(a)pirene, ed il camino E312 dell’impianto di agglomerazione per quanto riguarda la diossina.

Il sequestro e gli imputati

Il 26 luglio 2012, in base ad un rapporto dei Carabinieri del NOE, il GIP di Taranto aveva disposto il sequestro, senza facoltà d’uso, dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico Ilva. I sigilli riguardavano i parchi minerali, le cokerie, l’area agglomerazione, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione materiali ferrosi. Nell’ordinanza, il GIP concludeva che chi ha gestito e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza“.

Oltre al sequestro degli impianti, il GIP aveva, appunto, disposto gli arresti di Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa, fino al maggio 2010, il figlio Nicola Riva, succedutogli nella carica e dimessosi pochi giorni prima dell’arresto, l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso, il dirigente capo dell’area del reparto cokerie, Ivan Di Maggio, il responsabile dell’area agglomerato, Angelo Cavallo.

Il 30 luglio 2012, i Carabinieri del NOE di Lecce notificano il provvedimento di sequestro.

Il 7 agosto 2012 il Tribunale del Riesame di Taranto conferma il provvedimento di sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva predisposto dal GIP di Taranto Patrizia Todisco, sequestro vincolato alla messa a norma dell’impianto. Conferma, inoltre, gli arresti domiciliari per Emilio Riva, per suo figlio Nicola e per l’ex dirigente dello stabilimento, Luigi Capogrosso

Il Referendum

Il 14 aprile 2013 fu promosso un referendum consultivo tra la popolazione tarantina. Dei 173.000 elettori votarono 33.838 tarantini (il 19,55%); il mancato raggiungimento del quorum del 50% degli aventi diritto al voto lo rese, dunque, non valido. Questo è un dato inquietante e meriterebbe un’inchiesta a parte. Come sia stato possibile che di fronte ad un dissesto ambientale senza eguali in Europa, e con danni alla salute che hanno provocato migliaia di malati e di morti, l’80% degli operai si sia rifiutato di andare a votare consentendo che fosse invalidato il risultato, è un mistero. Ma forse di pulcinella. È evidente che qui il ricatto del lavoro, nonostante il prezzo della salute, ha avuto un peso.

 Il  contenuto e i risultati dei due quesiti furono i seguenti:

  1. Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute nonché la salute dei lavoratori contro l’inquinamento, proporre la chiusura dell’acciaieria Ilva?” (sì 81,29%, no 17,25%);
  • Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute e quella dei lavoratori, proporre la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva, maggiore fonte di inquinamento, con conseguente smantellamento dei parchi minerali?” (sì 92,62%, no 5,30%).

La procedura di messa in mora della commissione UE

Giovedì 26 settembre 2013, la Commissione Europea  avviò una procedura di messa in mora nei confronti dell’Italia, concedendo due mesi per rispondere, prima del deferimento alla Corte di Giustizia, con l’ipotesi che il Governo italiano non avesse garantito il rispetto delle direttive UE da parte dell’Ilva di Taranto, con gravi conseguenze per salute e ambiente, e in particolare per la “mancata riduzione degli elevati livelli di emissioni non controllate e generate durante il processo di produzione dell’acciaio”.

Il commissario UE all’Ambiente, Janez Potočnik, avrebbe dichiarato che le autorità italiane avevano avuto molto tempo per garantire che le disposizioni ambientali fossero rispettate, e che si trattasse di “un chiaro esempio del fallimento nell’adozione misure adeguate a proteggere salute umana e ambiente“. La procedura di messa in mora nasceva da un dossier di denuncia presentato a Bruxelles dalle associazioni Peacelink e Fondo Anti-diossina

La perizia chimica

Nella prima perizia sulle emissioni si legge che, nel 2010, ILVA aveva emesso nell’ aria kilogrammi di  sostanze convogliate, fra cui polveri sottili, diossido di azoto, anidride solforosa, acido cloridrico, benzene, idrocarburi policiclici aromatici, cromo, monossido di carbonio, arsenico, ecc. A tali emissioni convogliate, andavano aggiunte tutte quelle non convogliate, cioè, disperse in modo incontrollato, tra le quali, acido solfidrico, vanadio, tallio, berillio, cobalto, policlorobifenili (PCB) e naftalene.

Anche la fuoriuscita di gas e nubi rossastre dal siderurgico (slopping) era un fenomeno che era stato documentato dai periti chimici e dai NOE di Lecce. Secondo gli esiti della perizia sulle emissioni, “la diossina accumulata negli anni nel corpo degli animali, abbattuti gli anni precedenti proprio perché contaminati, era risultata la stessa presente negli elettrofiltri dei camini del polo siderurgico”.

Per quanto riguarda la diossina, la perizia affermava che “gli impianti dell’Ilva ne emettevano nel 2002 il 30,6% del totale italiano, ma sulla base dei dati INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti) del 2006, la percentuale sarebbe salita al 92%, contestualmente allo spostamento in loco delle lavorazioni “a caldo” dallo stabilimento di Genova

La perizia epidemiologica

Per ciò che riguarda la perizia epidemiologica, i modelli epidemiologici adottati dai periti di parte, nominati dalla Procura di Taranto, avevano attribuito agli effetti della produzione tutte le cause di morte, nei sette anni considerati. Ovvero:

  • un totale di 11.550 morti, con una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie;
  • un totale di 26.999 ricoveri, con una media di 3.857 ricoveri all’anno, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e cerebrovascolari.

Di questi, considerando solo i quartieri Tamburi e Borgo, i più vicini alla zona industriale:

  • un totale di 637 morti, in media 91 all’anno, sono stati attribuiti ai superamenti dei limiti di PM10 di 20 microgrammi a metro cubo (valore consigliato OMS rispetto al limite di legge europeo di 40 microgrammi a metro cubo). Secondo il Ministero della Salute, il problema del PM10 a Taranto, seppur inferiore all’inquinamento di PM10 di molte città dell’Italia Settentrionale, è determinato dalla tipologia di inquinanti che quelle polveri sottili veicolano.
  • un totale di 4.536 ricoveri, una media di 648 ricoveri all’anno per malattie cardiache e malattie respiratorie, sempre attribuibili ai suddetti superamenti.

Secondo i periti nominati dalla Procura, la situazione sanitaria a Taranto era dunque estremamente critica.

Gli esiti sanitari per cui secondo taluni esisteva una “forte evidenza scientifica” di un possibile danno da attribuire alle emissioni del siderurgico sarebbero: mortalità per cause naturali, patologie cardiovascolari e respiratorie, queste ultime in particolare per i bambini, tumori maligni e leucemie.

Gli esiti sanitari, per cui vi sarebbe stato un possibile danno dovuto alle emissioni delle industrie presenti a Taranto, riguardavano le malattie neurologiche e renali e i tumori maligni dello stomaco rilevati tra i lavoratori del complesso siderurgico.

La perizia epidemiologica si concludeva affermando che l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte“.

Dodici anni dopo

Con una sentenza emessa il 13 settembre, la Corte d’Assise d’Appello di Taranto, presieduta da Antonio Del Coco, ha annullato la sentenza di primo grado, espressa dalla Corte d’Assise nel maggio del 2021, dopo un lunghissimo processo, e aveva deciso il trasferimento degli atti alla Procura di Potenza.

La Corte d’Assise d’Appello depositerà nel giro di 15 giorni, comunque tra la fine settembre o i primi di ottobre 2024, le motivazioni del provvedimento che ha azzerato il processo di primo grado che si era concluso con 26 condanne, tra cui i dirigenti della fabbrica, manager ed ex amministratori pubblici, e che aveva commutato pene per 270 anni complessivi di carcere. In quella sede, va anche ricordato, la Corte d’Assise aveva disposto la confisca degli impianti dell’area a caldo, confisca che sarebbe eventualmente scattata dopo la conferma in Corte di cassazione, inoltre, aveva disposto la confisca di una somma di 2,1 miliardi per l’illecito profitto ricavato dalle società Ilva spa, Riva Fire e Riva forni elettrici.

Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società), erano stati condannati a 22 e 20 anni di reclusione e dovevano rispondere di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

L’arresto di Fabio Riva

La motivazione dell’annullamento della sentenza

Alla base del clamoroso provvedimento di annullamento della sentenza di qualche giorno fa, vi sarebbe una presunta “incompatibilità ambientale” Secondo i legali, infatti, “il processo non poteva essere celebrato davanti ai magistrati tarantini perché non avrebbero avuto la serenità necessaria nel giudicare, in quanto anch’essi sarebbero persone offese e danneggiate del reato di inquinamento” dal momento che risiedevano nelle vicinanze dell’impianto.

In realtà, quest’istanza era stata già sollevata in Corte d’Assise anni fa ma era stata respinta. Tant’è che la Corte era andata regolarmente avanti con le udienze, fino a fine maggio 2021, quando aveva emesso la sentenza, e a novembre 2022 aveva infine depositato le motivazioni in circa 3.700 pagine. L’appello era iniziato ad aprile e qui, la difesa di alcuni imputati, aveva rinnovato la richiesta già fatta in primo grado, adducendo la stessa motivazione, nonostante fosse stata già respinta.

Nelle udienze che ci sono susseguite, i legali delle parti civili avevano insistito nel mantenere a Taranto il secondo grado e anche i pubblici ministeri, insieme con il procuratore generale, avevano evidenziato che, non essendo gli stessi magistrati parte del procedimento penale in corso, non vi fossero i presupposti perché il processo fosse spostato. Ma di altro avviso è stata la Corte d’Assise d’Appello che, con l’ordinanza già citata, ha deciso di fermare tutto e di trasferire il caso a Potenza. Inevitabili le proteste sollevatesi dal fronte ambientalista (Peacelink, Veraleaks e Codacons), che adesso temono un colpo di spugna, il rischio prescrizione per molti reati ed un allungamento infinito dei tempi della giustizia.

Riva. Il ritratto del “Sole 24 ore

A Curaçao, nell’edificio di Kaya Wfg Mensing 36, aveva sede la Luxpack Nv, una società a responsabilità limitata (Llc) con un capitale di appena seimila dollari, che – in cima alla piramide – controllava indirettamente l’Ilva prima delle vicende che ne sancirono il passaggio alla ArceloMittal.

Luxpack è stata liquidata dal registro delle società di Curaçao l’11 luglio 2019, pochi giorni dopo la scomparsa di Adriano Riva, che della Luxpack era il presidente.

Managing director della Luxpack era il fiduciario svizzero Claudio Ottaviani, presente all’epoca – come vedremo – anche in altre società della famiglia milanese. La Luxpack era stata fondata l’11 gennaio 1996 ed era l’unica azionista della Monomarch Holding Bv, che possiedeva le società lussemburghesi proprietarie del 39,9% della Riva Fire, che era a sua volta azionista di controllo dell’Ilva.

Per capire dove erano le redini dell’Ilva di Taranto bisognava, dunque, risalire dalla Puglia a Milano, sede della Riva Fire, e da qui andare ancora più a Nord, fino in Lussemburgo. Qui hanno o avevano sede la Siderlux (cancellata dal registro delle società lussemburghesi il 9 gennaio 2020), la Stahlbeteiligungen (che è ancora attiva, oggi rientra nel gruppo Riva Forni Elettrici e ha chiuso il 2019 con una perdita di 2,5 milioni di euro) e la Utia (che nel 2019 ha perso 5,2 milioni di euro ed è presieduta da Claudio Ottaviani), le società che controllavano le aziende dei Riva sparse nel mondo.

Dal Lussemburgo si doveva, poi, rimbalzare ad Amsterdam, sede della Monomarch, la holding collocata in cima alle società lussemburghesi (la Monomarch controlla ancora la holding lussemburghese Utia, stando ai documenti consultati nel Granducato), e dall’Olanda bisognava prendere l’aereo, attraversare l’oceano e fermarsi finalmente di fronte alle coste del Venezuela. A Curaçao, appunto. Un viaggio di oltre 9.900 chilometri per poi scoprire che il quarto gruppo siderurgico europeo e ventitreesimo nel mondo, con un fatturato di 10 miliardi di euro, 36 impianti produttivi in Italia, Germania, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Tunisia e Canada, e quasi 22mila dipendenti, era controllato da una società di soli seimila dollari, poco più di 4.600 euro (…).

Fino al 2003, la chiave dell’impero dei Riva non era custodita a Curaçao, ma a oltre 1.300 chilometri di distanza, a Panama. Qui nel 1988 era stata costituita la High Class Business Corporation. Gli azionisti della società avevano conferito mandato fiduciario allo studio di avvocati Morgan y Morgan, il cui titolare, Juan David Morgan, è stato ministro degli Esteri della Repubblica di Panama. La società, con un capitale di 10mila dollari, è stata liquidata il 12 dicembre 2003 ed era proprietaria delle holding lussemburghesi dei Riva, la Utia e la Stahlbeteiligungen. Scorrendo i documenti del registro panamense, si scopriva che il presidente della High Class Business Corporation era Claudio Ottaviani, lo stesso fiduciario svizzero che sedeva nel consiglio della Luxpack di Curaçao (…). (Angelo Mincuzzi – Ecco come la famiglia Riva controllava l’Ilva di Taranto, da Curaçao al Lussemburgo – Il Sole 24 ore – 31 maggio 2021)

Un primo segnale allarmante:  la sospensione dei risarcimenti

Ancor prima di giungere alla recente decisione del  trasferimento a Potenza, la Corte d’Assise d’Appello, prima della pausa estiva, aveva preso un’altra decisione significativa: la sospensione del pagamento delle provvisionali da parte degli imputati del processo “Ambiente Svenduto” nei confronti delle parti civili costituite in giudizio. Ben 1.500 tra cittadini di Taranto e associazioni. Così come venivano sospese le provvisionali (ciascuna da 5.000 euro), da intendersi come primi risarcimenti, che erano state disposte dalla Corte d’Assise.

“La decisione di primo grado annovera numerose criticità”, ha scritto al riguardo il presidente Del Coco nell’ordinanza di sospensione, emessa su istanza di alcuni imputati, tra cui Fabio e Nicola Riva, Salvatore Capogrosso, ex direttore dello stabilimento di Taranto, Adolfo Buffo, ex dirigente Ilva, i “fiduciari” dei Riva – figure delegate dalla proprietà al controllo della produzione e degli impianti – e gli ex presidenti di Regione Puglia (Nichi Vendola) e Provincia di Taranto (Gianni Florido).

Secondo il presidente del collegio, “l’estensione della responsabilità civile attinente alle contestazione ad imputati raggiunti da singole contestazioni di reati contro la P.A., o, viceversa, nemmeno correlati tra loro da contestazioni di concorso o norme di raccordo, la nozione di danneggiato dal reato è stata estesa in maniera pressoché illimitata”. E ora il colpo di scena con lo stop al processo.

La Procura della Repubblica di Taranto, ad oggi, in verità, potrebbe impugnare in Corte di Cassazione la decisione del collegio dell’appello, una volta che la Corte d’Assise d’Appello avrà depositato le motivazioni della sentenza con cui si è azzerato il processo “Ambiente Svenduto”. Se il ricorso dovesse essere avanzato, e poi accolto dalla Suprema Corte, quindi, non ci sarebbe l’annullamento, ma solo un eventuale rinvio ad un’altra sezione della stessa Corte d’Assise d’Appello.

Tuttavia, siamo pronti a scommettere che il ricorso non sarà presentato e che, se lo sarà, non sarà accolto. Stiamo parlando di imputati che detengono società finanziarie e multinazionali che producono in vare parti del mondo con sede nei paradisi fiscali più protetti, di relazioni eccellenti e accertate, per esempio con lo studio di avvocati Morgan y Morgan. Stiamo parlando di imputati che hanno già ottenuto la sospensione degli indennizzi  e l’azzeramento della sentenza con una motivazione risibile che era già stata discussa e respinta.

Se questa eventualità di azzeramento del processo di primo grado dovesse verificarsi, come immediata conseguenza, scatteranno le prescrizioni di molti reati, si confermerà l’annullamento dei risarcimenti stabiliti (già sospesi) e si dovrà dar vita ad un nuovo processo della durata presumibile di altri vent’anni e che probabilmente si concluderà con l’assoluzione degli imputati per non aver commesso il fatto. Bisognerà vedere, a quel punto, se non saranno i Riva, gli attuali imputati, a chiedere un risarcimento milionario per la carcerazione preventiva, i sequestri, i danni materiali e morali. Come è evidente, questo non è  da escludere, anzi è molto probabile che accada.

E l’inquinamento? Le poveri sottili? I morti di tumore?  Siamo al sud; la volontà di Dio, o la sfortuna. E i  risarcimenti, gli indennizzi? Siamo in Italia, si stava scherzando, come sempre.

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