Ogni anno, le perforazioni in mare, effettuate dalle compagnie petrolifere per lo sfruttamento di idrocarburi, distruggono intere aree marine e il loro ricco patrimonio faunistico, arrecando danni irreversibili alle popolazioni costiere
Di Patrizia Romano
Le perforazioni in mare, finalizzate alla ricerca e allo sfruttamento di idrocarburi, rappresentano un grave pericolo per l’intero ecosistema marino. Il Canale di Sicilia è tra le aree maggiormente a rischio. La sconsiderata corsa al petrolio incombe come una minaccia sui nostri mari, portando benefici alle compagnie petrolifere e danni irreversibili alla popolazione. Il nostro ecosistema viene, così, giorno dopo giorno, alterato e, a poco a poco, distrutto. Il principale pericolo è rappresentato, prevalentemente, dalle attività di routine, che vengono condotte frequentemente e per le quali vengono utilizzati dei fluidi perforanti molto pericolosi.Infatti, il rischio perforazioni sul Canale di Sicilia è, ormai, una costante e non si attenua mai.
Trivellazioni e rischio maremoto
La sete di profitto delle multinazionali petrolifere è tale da spingere le stesse a trapanare, persino,aree marine notoriamente sismogenetiche, cioè in grado di produrre terremoti. In particolare, sono le aree sul cui fondo soggiacciono vulcani ancora attivi, ma non visibili perché sommersi dalle acque. Nei nostri mari esistono ben 12 vulcani sommersi; tutti sottoposti a continui bombardamenti in nome dei ricchi giacimenti. Nel 2010, il governo Berlusconi firma un piano di monitoraggio subacqueo dei dodici vulcani sommersi nel mar Tirreno e nel canale di Sicilia. Un piano che prevede una precisa localizzazione dei vulcani e uno studio approfondito degli stessi, prima di procedere alle trivellazioni. Un piano, quindi, mirato a prevenire i rischi di possibili tsunami. A catena, è stata concessa, dallo stesso governo, una serie di ‘placide’ autorizzazioni che consentono alle varie società petrolifere di procedere direttamente alle operazioni di perforazione. Tutto, in barba al piano di prevenzione.
Il caso più raccapricciante è rappresentato dal vulcano Marsili, il più grande d’Europa, in fondo al Tirreno. Molto vicino alle isole Eolie e al largo delle coste campane, calabre e siciliane, il vulcano investe una zona molto ampia. L’intera area è solcata da faglie sismiche attive. Nonostante tutto, considerata un’ottima sorgente di energia geotermica, viene sottoposta a continue perforazioni. L’operazione tecnica consiste nel trivellare, attraverso una piattaforma semisommergibile, il fianco roccioso del monte vulcanico.
L’avallo dei governi alle compagnie petrolifere
Nel 2009, il Ministero dello Sviluppo Economico ha conferito, alla Eurobuilding Spa, una grossa società estrattiva, un permesso di ricerca esclusivo per fluidi geotermici a mare sull’area del Marsili. Inoltre, la società ha ottenuto una valutazione positiva dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Insomma, una follia autorizzata e in piena regola, che potrebbe causare disastri irreparabili. Disastri che richiamano alla memoria eventi drammatici avvenuti in passato e sottaciute, come il caso dello Stromboli. Il vulcano, oggi uno dei più sorvegliati al mondo, nel 2002, subì il distacco di una parte che, finita in mare, a una profondità di 2000 metri, provocò uno tsunami molto violento, con onde alte quanto quelle del maremoto del 2004 nel Sud-Est asiatico. Fortunatamente non ci furono conseguenze gravi sulle persone, ma solo perché era inverno e le spiagge erano deserte.
Intanto, la Eurobuilding continua ad andare avanti con il proprio progetto sull’area del Marsili, propagandando, con toni persuasivi e tranquillizzanti, le varie fasi operative e annunciando che, entro il 2015, sarà possibile la produzione di energia elettrica, con il supporto di una piattaforma multifunzionale offshore, dotata di tutte le strutture necessarie alla perforazione e alle unità di produzione di energia elettrica; il primo pozzo geotermico offshore della storia. Rimane strano, comunque, il fatto che il grandioso progetto non sia stato sottoposto ad alcuna valutazione ambientale. Com’è strano, pure, che la Magistratura non abbia effettuato alcuna indagine su una società nota alla legge, perché indagata dalla Procura della Repubblica di Ancona per un appalto truccato, legato a danni ambientali sulla costa marchigiana. Inoltre, il Tar Abruzzo ha respinto la richiesta della società di estrarre notevoli quantità di sabbia dal fondo del mare Adriatico.
Lo scorso settembre, il ministro per lo Sviluppo Economico, Flavio Zanonato blocca le trivellazioni su un’area di 116 mila chilometri quadrati, per anni alla mercé delle compagnie petrolifere. Nell’Italia delle contraddizioni, però, pur ricadendo nell’area interdetta, il permesso di ricerca su 657 chilometri quadri nel Canale di Sicilia rimane valido. In poche parole, il Governo, prima introduce una serie di limitazioni e, poi, non interviene sugli effetti della sanatoria del decreto sviluppo dell’anno precedente. Proprio per questa serie di contraddizioni, ci troviamo di fronte ad aree di grande pregio che continuano ad essere perforate e, quindi, sottoposte a un alto tasso di inquinamento marino e ad alto rischio di frane.
Progetti di coltivazione
Intanto, i progetti di coltivazione nei nostri mari continuano a proliferare. Attualmente sono ben 67 e ne è titolare l’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi. Più della metà di queste società non pagano le royalty. Eni ed Edison, tra l’altro, hanno presentato una richiesta formale al Governo per avviare nuove campagne di ricerche di idrocarburi in quelle zone. Richiesta che preoccupa molto gli esperti dell’Ingv, Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, secondo i quali, le nuove trivellazioni attenterebbero ulteriormente all’equilibrio marino del Canale di Sicilia, dove sono situati pericolosi vulcani sottomarini a rischio sismico.
Oltre all’Eni, anche la Transunion Petroleum ha deciso di trivellare al largo delle coste siciliane. Un progetto per esplorazioni che investe un’area che si estende per circa 500 chilometri quadrati in totale e in acque profonde, con una distanza dalla costa, veramente ridicola, situata a circa 7 chilometri dalla riva e nelle strette vicinanze dell’area protetta Biviere di Macconi di Gela; una palude caratterizzata da rive coperte da canneti e con qualche isolotto ricco di avifauna. Non lontano, abbiamo altre aree compromesse. Si tratta della costa di Contrada Branco Piccolo, sita nel comune di Ragusa, dichiarata zona di notevole interesse pubblico e della porzione di territorio comprendente il Fiume Irminio, nonché zone circostanti nei comuni di Scicli, Modica e Pozzallo. Inoltre, sulla costa Iblea, sono presenti zone di ripopolamento ittico, tartarughe marine
Come fermare la strage ambientale?
Cosa fare, allora, per fermare questa strage ambientale? L’unica possibilità per tutelare l’ambiente marino sarebbe quella di impedire le perforazioni. Il Governo regionale dovrebbe promuovere e realizzare qualsiasi iniziativa necessaria per revocare, in maniera definitiva, tutte le concessioni e autorizzazioni alle trivellazioni. Numerose associazioni ambientaliste hanno ripetutamente lanciato l’allarme, chiedendo al Governo il blocco dei progetti di ricerca e perforazione off-shore, che mettono a rischio la biodiversità del Canale di Sicilia.