Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Troppo tempo sui social riduce il livello di felicità

Secondo uno studio dell’università britannica di Sheffield passare troppo tempo sui social abbassa del 3% la probabilità di essere soddisfatti della propria vita...

di Redazione

Secondo uno studio dell’università britannica di Sheffield passare troppo tempo sui social abbassa del 3 per cento la probabilità di essere soddisfatti della propria vita. Ad approfondire l’argomento è lo scrittore e psicologo Andrea Giostra 

 

di  Joey Borruso 

La ricerca della felicità ai tempi dei social media: sempre connessi e sempre più infelici. Sembra, infatti, che ci sia un legame stretto tra il tempo passato online e il livello di felicità. A sostenerlo è l’università britannica di Sheffield che, a seguito di un’indagine condotta su un campione di ragazzi, ha concluso che trascorrere sui social network più di un’ora al giorno abbassi del 3 per cento la probabilità di essere soddisfatti della propria vita.
Abbiamo voluto approfondire questa tematica in un’intervista allo scrittore e psicologo Andrea Giostra, che ha appena ottenuto il premio letterario Milano International per sue “Novelle brevi di Sicilia” (domani alle ore 20,15 presso la sala Barozzi dell’Istituto dei Ciechi via Vivaio 7 a Milano si terrà il Gran Galà di premiazione).

La Raccolta “Novelle brevi di Sicilia” si legge gratuitamente dal Blog di Andrea Giostra, ovvero qui:

https://andreagiostrafilm.blogspot.it/2017/09/novelle-brevi-di-sicilia-mia-nonna-vita.html

Cos’è cambiato nella ricerca della felicità delle nuove generazioni rispetto a quelle precedenti?
Per parlare di felicità, dobbiamo prima capire cosa si intende per felicità, o meglio, qual è l’accezione comune e condivisa dalla nostra cultura di questo termine. Cosa intendiamo noi con “felicità”? Come faccio spesso, mi sono fatto aiutare da Treccani che ci dice che felicità è lo “Stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato.” Se il concetto condiviso di “felicità” del quale vogliamo discutere è questo, allora sinceramente non so come i social possano aiutare a trovare o ri-trovare uno “stato d’animo sereno”. Non credo sia questo quello che si cerca su internet o sui social, bensì una condizione di condivisione e di partecipazione della propria solitudine. In una parola, si naviga sui social per non sentirsi soli, o per sentirsi meno soli. È la solitudine quella che procura sofferenza e inquietudine. Quella sofferenza e inquietudine che “costringe” molte persone a soddisfare il bisogno di relazioni sociali in una condizione di second life, in una condizione virtuale, che a mio avviso non potrà mai essere appagante come invece può esserla una relazione reale, una relazione vera fatta di incontri fisici in cui si parla, ci si guarda negli occhi, ci si tocca, ci si abbraccia, e cose di questo tipo. Da questo punto di vista, qualsiasi relazione virtuale non può che procurare altra sofferenza e altra solitudine, nel momento in cui si attribuisce a questa relazione una connotazione reale, quando invece di reale non ha nulla. Non sono rari i casi in cui da una condizione di relazione virtuale si passa poi ad una condizione di relazione reale con tutto quello che questo comporta. Ovvero, i rischi e i pericoli del fallimento nel passaggio ad una relazione reale. Un inizio di relazione reale compromessa in partenza perché montata da tantissime aspettative e da tantissime presunte qualità che non appartengono alla persona che si incontrerà nella realtà, bensì a quello che vorremmo avesse la persona che stiamo incontrando dal vero. Partendo dal virtuale, costruiamo un personaggio che risponde e corrisponde perfettamente alle nostre esigenze, ai nostri bisogni, alle nostre aspettative. Un personaggio, anche questa volta, virtuale perché frutto della nostra immaginazione e della nostra fantasia.
Da questo punto di vista sono le illusorie aspettative quelle che possono distruggere la relazione reale al suo nascere: «Avevo di te un’idea diversa. Pensavo fossi come ti volevo io. Invece sei un’altra persona. Mi hai deluso. È meglio che prendiamo strade diverse.»Più o meno è questo il pensiero che viene fatto dopo l’incontro reale.
È chiaro che non è sempre così. Ci sono pochi casi in cui l’incontro reale risponde alle reciproche aspettative e si riesce a costruire qualcosa di positivo e soddisfacente. Ma questi casi sono in netta minoranza rispetto a quelli fallimentari.

Le relazioni sono più instabili anche a causa dei social?
Sicuramente i social hanno amplificato la possibilità di conoscere nuove persone, hanno aumentato la quantità degli stimoli relazionali, hanno aumentato esponenzialmente i sogni ir-realizzabili e la possibilità di trovare quello che si è sempre cercato nella vita. In realtà non lo so se i social hanno reso le relazioni più instabili. Sicuramente hanno creato una condizione di second life, come dicevamo prima, ovvero una vita virtuale parallela a quella reale che si vive nella quotidianità con la propria famiglia, con i propri amici veri, con i propri colleghi di lavoro. Quando la persona non riesce a fare una distinzione chiara tra quella che è comunemente chiamata second life da quella che è invece la real life, allora sì che si creano diversi problemi nella vita reale. Secondo me è questo il punto cruciale della vita sui social: avere ben chiaro che stiamo parlando di due dimensioni diverse e parallele.

andrea giostra
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Due dimensioni che non dovrebbero mai incontrarsi se non attraverso una sana consapevolezza: «So che fino ad adesso sei stata una persona virtuale, ma adesso che ci stiamo conoscendo davvero, dovremo scoprire insieme quello che siamo come persone reali, nella quotidianità, nella vita vera di tutti i giorni.» Se si ragiona così, allora questo è un modo di ragionare sano e di affrontare una nuova relazione nel modo più adeguato e consapevole possibile. Se invece si confonde e si omogenizza il virtuale con il reale, non potranno che accadere guai e problemi per tutti i soggetti coinvolti.Prima per essere felici bastava poco, ora che emozioni cercano i giovani?
Non lo so se prima si era felici con poco, se con “prima” intendiamo prima dell’avvento dei social, ovvero quindici/venti anni fa. Sicuramente “prima il mondo era più piccolo”, nel senso che prima conoscevamo le cose del nostro quartiere, della nostra città, della nostra regione, del nostro Paese. Erano poche le notizie che arrivavano da altri continenti se non attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa, le TV pubbliche, le radio, e cose di questo tipo. Oggi è come se un fatto negativo accaduto a New York, a Taiwan, a Tokyo, a Sidney, a Mosca e via discorrendo, per la prossimità virtuale dei social e dei nuovi mezzi di comunicazione del ventunesimo secolo, è come se accadesse vicino a noi, al nostro vicino di casa, ad un nostro parente, ad un nostro amico. E chiaramente tutto questo, quando ne siamo coinvolti empaticamente, ci crea angoscia, sofferenza, stress, paura. Ecco, la paura che possa accadere anche a noi è l’elemento più inquietante della “prossimità” degli accadimenti del mondo che apprendiamo e possiamo vedere in tempo reale attraverso isocial. Da questo punto di vista è chiaro che la “felicità” viene un po’ attentata. Ma a parte questa lettura, che certamente andrebbe approfondita molto di più e molto meglio, non credo che le condizioni umane di oggi per essere felici rispetto a quelle di “prima” siano cambiate.
I giovani cercano sempre le stesse cose, ieri come oggi, prima come adesso, mille anni fa come nel ventunesimo secolo. Quando diventiamo adulti, purtroppo, dimentichiamo di essere stati anche noi adolescenti, giovani. Dimentichiamo i nostri sogni e le nostre speranze di allora. Dimentichiamo cosa ci faceva tremare di emozione e di gioia. Se ci fermiamo un attimo e riflettiamo su queste cose, su come eravamo da adolescenti, da giovani, allora saremo in grado di capire perfettamente quello che vogliono i giovani di oggi perché sono le stesse cose che volevano noi alla loro età: realizzare i nostri sogni, avere un futuro luminoso e felice, trovare la persona giusta che ci accompagna e condivide con noi la nostra vita, innamorarci perdutamente ed amare perdutamente, essere apprezzati e amati, avere un mondo giusto e senza guerre, e via discorrendo … sono queste le cose che vogliono i giovani di oggi per essere felici, così come di le volevamo noi “allora”. Da questo punto di vista non è cambiato nulla, se non i mezzi attraverso i quali raggiungere i nostri obiettivi e realizzare i nostri sogni per essere felici.

La depressione, in continuo aumento fra i giovanissimi, può essere causata da una felicità inappagata?
Quando iniziai a studiare psicologia, alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, la depressione era già allora “il male del secolo”, così veniva definita da tutti gli studiosi e da tutti i ricercatori. La quantità di farmaci legali utilizzati in occidente per combattere questo “male”, ricordo, era impressionante, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma non solo ovviamente. Quello che forse oggi è cambiato rispetto a trenta o quaranta anni fa, è la consapevolezza che la depressione è una malattia che si può curare e che si deve affrontare clinicamente e farmacologicamente. Trenta anni fa andare dallo psichiatra o dallo psicologo per curare la depressione, lieve o grave che fosse, non era socialmente consentito. Si rimaneva chiusi in casa aspettando che passasse, si pregava, di chiamavano i cosiddetti “maghi” che si arricchivano con questo male, si chiamava il prete che diceva alla famiglia di pregare perché questo male andasse via con l’aiuto del Signore. Insomma, cose di questo tipo che conosciamo tutti. Questo per dire che pochissimi erano quelli disposti ad andare, per esempio, al dipartimento di salute mentale di una asl per farsi diagnosticare una depressione e farsi curare. Da questo punto di vista, oggi che c’è maggiore consapevolezza e cultura sui mali dell’anima (come vengono impropriamente chiamati), è quasi normale, quando uno sta male, andare dallo psicologo o dallo psichiatra per chiedere aiuto. Questo ha fatto sicuramente aumentare i casi presi in carico ufficialmente dalle strutture sanitarie, dagli psicologi o dagli psichiatri. Ma non è affatto detto che prima, quando nessuno era disposto a farsi curare o quando nessuno se ne occupava clinicamente in modo ufficiale, fossero un numero inferiore rispetto ad oggi che le persone che stanno male sono culturalmente disposte ad andare dallo psicologo (per semplificare) per farsi curare. Questo per dire che quando si leggono dei dati numerici bisogna sempre contestualizzarli culturalmente e socialmente. E in questo caso io non sono tanto sicuro che oggi coloro che soffrono di depressione siano più numerosi di quelli che soffrivano di depressione trenta o quaranta anni fa.

Come si può intervenire per cercare di arginare il fenomeno?
Quando si ha un problema di salute mentale, quando un genitore si rende conto che il proprio figlio ha dei disturbi psichiatrici, quando un familiare vede che un membro della propria famiglia sta male psicologicamente, manifesta dei problemi caratteriale o di instabilità del tono dell’umore, la cosa migliore da fare è sempre quella di rivolgersi ad uno psicologo o ad uno psichiatra con una formazione psicodinamica. Ci sono tantissimi professionisti molto preparati che lavorano sia nel pubblico che nel privato, ed è a loro che bisogna rivolgersi per avere un primo consulto e poi decidere cosa fare. Secondo me non ci sono altri modi se non quello che ad occuparsi di questi problemi siano le persone, i professionisti che sanno dove e come mettere le mani nella testa di una persona che ha problemi psicologici. Rivolgersi ai cosiddetti santoni o ad apprendisti stregoni, è invece la cosa peggiore che si possa fare perché condanneremmo ad “morte sociale” la persona che sta male psicologicamente! Per affrontare seriamente ed adeguatamente il problema si deve andare da chi ha le competenze cliniche e professionali per farlo. Ed oggi è molto facile trovare queste persone: si può chiedere al proprio medico di base, ad amici che sono stati aiutati con successo da psicologi o psichiatri, ci sono gli albi professionali accessibili via internet … insomma, i canali ufficiali sono tantissimi. Quello che è certo, è che oggi trovare la persona giusta, il professionista (psicologo, medico-psichiatra, neuropsichiatra, etc..) preparato e competente, è molto più facile che venti o trenta anni fa.
Forse quello che si potrebbe fare per arginare il fenomeno, ma qui il compito è della politica intelligente, è promuovere una campagna di sensibilizzazione e informazione a partire dalle scuole, che faccia capire ai cittadini quali sono i primi segni della depressione, che la depressione oggi è un male curabilissimo se preso in tempo, e che suggerisca dove e a chi rivolgersi per essere aiutati.

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