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Ulteriori spunti giuridici in tema di consuetudine

L’uso consuetudinario tra le fonti del diritto è espressamente richiamato dall’art. 8 delle Disposizioni sulla Legge in Generale al Codice Civile...

di Redazione

La esistenza dell’uso consuetudinario tra le fonti del diritto è espressamente richiamato dall’art. 8 delle Disposizioni sulla Legge in Generale al Codice Civile, che limita l’ammissibilità della consuetudine alla conformità alla legge (secundum legem), ovvero alla indeterminatezza normativa su talune materie (praeter legem), con esclusione dunque dell’uso contrario alla legge

 

Avv. Giovanni Parisi

(parte seconda)

Al contrario, sembra consentita nel nostro ordinamento l’abrogazione di una norma mediante desuetudine ogni qual volta i destinatari della norma non osservino, in modo reiterato e diffuso, un precetto. Si tratta, più specificatamente, di un diritto che viene spontaneamente creato dagli stessi destinatari della norma.
È evidente, tuttavia, che il ripetersi in maniera uniforme e costante di un determinato comportamento non vale di per sé a far sorgere una regola di diritto.
In una prospettiva analitica, infatti, gli usi normativi o consuetudini acquisiscono la qualifica e la efficacia di  “fonti di fatto produttive di norme giuridiche” soltanto al ricorrere di due requisiti, ossia l’usus, ovvero la ripetizione generale, uniforme e costante, frequente e pubblica di un determinato comportamento (il c.d. elemento materiale), e l’opinio iuris ac necessitatis, ovvero la consapevolezza della giuridica doverosità della condotta tenuta (c.d. elemento soggettivo).
L’elemento che differenzia la consuetudine da altre regole è da individuarsi nel fatto che ricorra una norma consuetudinaria, soltanto, allorquando sussista il convincimento che un determinato comportamento costituisca un modo di perseguire i fini propri del gruppo o di comporre i conflitti di interessi. Al riguardo, è proprio nella dicotomia tra la dinamica di una tale coscienza da parte dei consociati ed il conflitto tra diversi interessi, a delineare contorni sempre più labili e ambigui rispetto all’insorgenza di questa particolare tipologia di fonte giuridica, nonché del rilievo che ad essa debba essere riconosciuto.
Uno dei settori in cui, negli ultimi anni, detto quesito ha animato un vivace contrasto all’interno della giurisprudenza italiana, assumendo non di rado aspetti conflittuali, è quello inerente al rilievo del dato consuetudinario nell’ambito dell’anatocismo bancario.
L’anatocismo, prima del suo divieto entrato in vigore con la Legge di Stabilità 2014, che ha profondamente modificato l’art. 120 T.U.B., era esclusivamente disciplinato dall’art. 1283 c.c., ai sensi del quale “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”.

La duttilità di un simile incipit ha fornito la legittimità di un intervento dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI) non privo di “nefaste conseguenze”. Difatti, mediante l’inserimento dell’art. 7 delle proprie norme bancarie uniformi, l’ABI ha introdotto una nuova regola che, a partire dal 01/01/1952, è stata inquadrata come condizione generale dei moduli e formulari di ogni istituto bancario. Tale clausola, nello specifico, prevede un sistema di capitalizzazione degli interessi che risulta improntato ad un diretto vantaggio per l’istituto di credito, nonché contraddistinto da un forte squilibrio tra due diverse tipologie di conti.
Essa stabilisce che, mentre ai conti in bonis (non a debito) si applichi una capitalizzazione annuale, quelli “c.c.d.d. in rosso” vengano chiusi ogni trimestre, subendo una capitalizzazione quadruplicata.

Benché detto sistema si ponesse in aperto contrasto con il dettato dell’art. 1283 c.c., la legittimità di tale intervento, secondo la posizione espressa dagli istituti di credito, era da ravvisarsi proprio nell’incipit della norma, inquadrando l’anatocismo bancario come un “uso contrario” e, pertanto, fonte di disapplicazione della disposizione codicistica. Per oltre un ventennio, questa opinione venne condivisa da una approssimativa e copiosa giurisprudenza. Soltanto a partire dalla sentenza n. 2374/1999, la Cassazione ebbe finalmente ad evidenziare la difficoltà di qualificare l’art. 7 N.B.U. come un uso normativo. Detta presa di posizione risultò ancorata a diverse argomentazioni, riassumibili in 3 punti: 1) la inesistenza di una simile previsione in data anteriore al 1952; 2) il contrasto tra detta prassi e l’art. 1 disp. prel. c.c. (posto il suo riscontro all’interno delle sole raccolte di usi di natura meramente privata); 3) l’assenza dell’opinio iuris ac necessitatis ai fini della qualificazione della stessa quale prassi doverosa e consolidata.
Sotto un profilo di natura critica, in realtà, l’oggetto della verifica in ordine alla esistenza di una consuetudine relativa all’anatocismo bancario, è costituito non già dalla “doverosità” di una determinata condotta, quanto dalla “ritenuta liceità” di una determinata pattuizione.

In questa diversa prospettiva, del resto, si è orientata la celebre sentenza delle Sezioni Unite n. 24418 del 02/12/2010. Difatti, a fronte di un discutibile tentativo del Governo di arginare i danni, demandando al C.I.C.R. (Comitato Interministeriale per il credito ed il risparmio) la emanazione della circolare del 02/02/2010 che facesse salvi i contratti stipulati sotto il vecchio regime, il Collegio di legittimità ha precisato come, stante la natura del contratto stipulato tra la banca ed il cliente, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di  anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c., (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna”.
In altri termini, si ritenne che la sola circostanza per cui i contratti bancari prevedessero generalmente l’anatocismo, non fosse di per sé sufficiente a provare che, nella coscienza dei clienti ed a prescindere da ogni pattuizione, la corresponsione di interessi fosse avvertita come doverosa.
Conseguentemente, assumendo come oggetto della consuetudine de qua non già la doverosità dell’anatocismo, ma la liceità della sua stipulazione, la valutazione circa la sussistenza dell’opinio iuris dovrà investire tutti gli elementi da cui possano ritenersi lecite le “pattuizioni anatocistiche”.

In definitiva, dunque, può ben concludersi evidenziando che, atteso il doveroso rilievo della fonte consuetudinaria, solo la conformità all’ordinamento può determinare, nel nostro sistema, la liceità di una data condotta.

(parte prima) http://inchiestasicilia.com/2018/05/10/la-consuetudine-tra-le-fonti-del-diritto-internazionale-e-nazionale/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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