Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Una siciliana in Bangladesh: fra povertà e modernità

di Redazione

Dacca, Bangladesh: l’esperienza di una siciliana in un progetto di cooperazione internazionale. Un paese profondamente diverso dal nostro, fra povertà e sprazzi di modernità, ma animato, nei volti e nei gesti della gente, da profonda solidarietà

 

di Fabio Vento 

Trascorrere alcuni mesi in un paese straniero, partecipando ad iniziative di volontariato: i progetti di cooperazione internazionale offrono ai giovani percorsi di vita inediti, a contatto con culture e società distanti dalla nostra. Laura Ruisi, palermitana di 28 anni con diverse esperienze nel sociale, ha trascorso i mesi autunnali del 2013 a Dacca, capitale del Bangladesh. In questa intervista il racconto del suo viaggio. 

Cosa ti ha spinto a intraprendere questa esperienza, e in cosa consiste il progetto in cui sei stata coinvolta? 

Desideravo un’esperienza nel sociale che potesse arricchirmi sul piano personale, ma anche su quello dell’esperienza lavorativa. E che potesse anche essere di beneficio ad altri, portandomi in contatto con culture diverse: sono sempre stata affascinata dalle altre culture e dalla quella asiatica e indiana in particolare. A Palermo sono venuta a contatto con molti immigrati del Bangladesh e dello Sri Lanka, e desideravo conoscere in modo più concreto il tessuto sociale e la cultura di quei luoghi. L’occasione si è presentata in modo repentino e inaspettato, quando ho saputo dell’opportunità di trascorrere alcuni mesi in Bangladesh nell’autunno 2013, in un progetto organizzato dal CEIPES (Centro Internazionale per la Promozione dell’Educazione e lo Sviluppo) nell’ambito del Servizio Volontario Europeo. Fra Dacca e un villaggio nei pressi di Manikgonj, avrei collaborato con due organizzazioni congiunte, DRRA – Disabled Rehabilitation and Research Association e Niketan, che supportano bambini con disabilità e le loro famiglie 

Il Bangladesh è un paese via di sviluppo, largamente sovrappopolato e attraversato da grandi problemi economici e sociali. Ai piccoli e medi centri urbani, più vicini allo stile di vita occidentale, si contrappone la realtà dei villaggi agricoli: una realtà di povertà e arretratezza. Scarsa istruzione di base, servizi inefficienti, problemi igienico-sanitari, inadeguata assistenza sanitaria: tocca alle associazioni ed organizzazioni umanitarie sopperire ad uno stato assente. Con servizi educativi, supporto legale, supporto logistico e organizzativo alle famiglie, servizi medici. 

Eravamo sei volontari da diverse nazioni europee e i nostri compiti erano suddivisi in base alle  attitudini. Personalmente avevo il ruolo di sviluppare una “social map”, ovvero una mappa informativa che consentisse a bambini e famiglie di individuare e accedere agevolmente ai servizi presenti sul territorio. Con l’aiuto di persone del luogo, mi recavo a visitare ospedali, enti, uffici governativi per collezionare tutte le informazioni utili. Contemporaneamente, mi sono occupata della realizzazione di cataloghi e materiale informativo relativo all’offerta di giochi e materiali prodotti dall’unità dai carpentieri, composta anche da ragazzi con disabilità. Infine, insieme ad altri volontari, organizzavo attività pomeridiane di sostegno ai ragazzi e allo staff stesso dell’associazione: lezioni di inglese, di informatica, attività ludico-culturali per bambini e ragazzi. 

Diversamente dalle precedenti esperienze di volontariato nella mia città, dove il lavoro era confinato in tempi e luoghi ben precisi, quest’esperienza è stata continua e immersiva. Una vera e propria immersione nella vita, negli usi, nei costumi della gente del luogo, uno scambio umano e personale. Che mi ha permesso di entrare in contatto con punti di vista, stili di vita, visioni del mondo diverse dalla mia. 

E’ stato arduo integrarsi e ambientarsi in una realtà così differente dalla nostra? 

Come in tutti i periodi di vita all’estero, serve un certo tempo per “assestarsi” ed assimilare la novità, dall’organizzazione del quotidiano alle diverse regole e costumi: a maggior ragione in questo caso. Tante cose erano diverse, a partire dal clima. Quando sono arrivata stava per concludersi la stagione dei monsoni e faceva un caldo intenso e umido, il che rendeva tutto più difficile. I campi apparivano come delle grandi distese d’acqua, sormontate da quelle ninfee che, non a caso, sono il fiore nazionale. Con l’arrivo dell’autunno le pioggie si sono fatte sempre più rare, lasciando il passo a giornate soleggiate e a fresche serate. Le condizioni igienico-sanitarie non sono paragonabili alle nostre: il cibo è esposto alle polveri della strada e l’acqua è contaminata da arsenico. Naturalmente un occidentale, per quanto possa prepararsi con un’opportuna profilassi, si trova impreparato nei confronti di tutte le forme batteriche, diverse da quelle che si trovano in Europa. Per questo è opportuno seguire costantemente una serie di norme sanitarie, cosa però non sempre facile. 

Per ciò che riguarda i rapporti con le persone, nonostante l’ovvia difficoltà rappresentata dalla lingua, sono stata accolta con grande curiosità e apertura. Come nella maggior parte delle culture orientali, l’ospite è considerato con particolare riguardo. Ricordo la disponibilità dei passanti ogni volta che mi “perdevo” a Dacca e chiedevo indicazioni; o tutte le volte, passeggiando per la città, mi trovavo quasi “circondata” da gruppi persone, mosse dalla semplice curiosità. Erano curiosi di   sapere come mi chiamassi, da dove venissi, se mi trovassi bene nel loro paese. In generale, nessuna delle persone che ho incontrato ha mai avuto paura del confronto ed, anzi, hanno mostrato tutti un gran desiderio di conoscere me, le mie abitudini, il mio punto di vista, perfino la mia religione, accettandola senza nessuna condizione. 

Mi piace ricordare, in questo senso, un episodio. Un giorno dovevo tornare da Bagerhat verso Khulna. Era pomeriggio e l’autobus era molto affollato: ad un certo punto, un uomo si è offerto di cedermi il suo posto accanto a sua moglie, una giovane donna che teneva in braccio suo figlio da poco nato. Il velo del suo burqa era sollevato, come sempre avviene negli autobus. Subito, fin da quando mi sono seduta, mi ha accennato un sorriso. Era una bella donna, dal fascino particolare. Le ho chiesto: «E’ tuo marito?» Con l’aiuto del mio “povero” bangla e di qualche vicino di poltrona, siamo riuscite ad arrivare ad elementari scambi di frasi. Io ero incuriosita dalla bellezza sua e del suo bambino; lei, da parte sua, con grande semplicità mi ha chiesto se avessi un marito, se avessi figli. A un certo punto, notando la mia attenzione per il  bambino, mi ha permesso di prenderlo in braccio per qualche istante. Due ragazze, così diverse fra loro, sono riuscite a entrare in contatto. Con il solo desiderio di conoscersi e di condividere, sia pure nello spazio ristretto di un autobus e con la consapevolezza che, probabilmente, non si sarebbero mai più riviste. 

Nella realtà specificamente lavorativa ho percepito una fondamentale diversità: i ritmi sono più lenti e diverso è il modo di approcciarsi ai problemi, meno scientifico e forse meno “intraprendente”. La nostra mentalità è più dinamica e più orientata all’analisi del problema per individuare una soluzione. 

Quali caratteri del luogo, della gente, della cultura e socialità bangladese, ti sono rimasti più impressi nella memoria? 

A Palermo, come molti sanno, c’è una folta comunità bangladese, ma è ben poco integrata nel tessuto cittadino: deve scontrarsi con una diffidenza di base, dettata da una percezione distorta della realtà del loro paese e della loro cultura: una percezione che pochi, informandosi e documentandosi, si preoccupano di correggere. Parlerei quindi, più che di integrazione, di tolleranza. 

Invertendo i ruoli, la realtà è del tutto diversa. In Bangladesh c’è una società eterogenea, determinata dall’incrocio di più culture: una convivenza fondata sul rispetto, sull’accettazione di ogni diversità. Puoi trovare la donna anziana che pascola i buoi a seno nudo e, poco lontano, la ragazza in burqa; o due amiche che vanno insieme in bus, una vestita con un sari che lascia scoperti i fianchi e l’altra completamente velata. Ho perfino visto persone indù, durante le proprie festività, invitare a pranzo musulmani. Personalmente non mi sono mai sentita giudicata per quello che pensavo o per quello che ero. Anche nell’ambiente lavorativo le persone dello staff erano di varia origine – chi indù, chi cristiano, chi islamico – e tutti lavoravano assieme senza sollevare polemiche intorno alla religione: era naturale accettare la diversità dell’altro. Molte volte mi sono sentita dire «Siamo tutti uguali, siamo tutti fratelli.» 

Un altro elemento che ho notato vivamente, in città come nei villaggi, è stato il contrasto fra elementi naturali e tradizionali, essenziali e poveri, e oggetti propri della modernità, direi della globalizzazione. Anche qui c’è una tendenza latente ad abbandonare gesti e usi tradizionali in favore di uno stile di vita produttivo e meccanizzato. Giusto per fare un esempio, nelle città le taverne tradizionali, che offrono piatti tipici come riso con curry speziati, sono intervallate da negozi che vendono patatine, pane tostato industrialmente, packaging occidentale, o la bottiglia di Coca-Cola col nome in bangla. E gli scarti di questi cibi e di queste confezioni finiscono per terra, spesso per giorni o mesi interi, scontando un inefficiente servizio di raccolta rifiuti. Un’altra immagine che mi torna in mente è quella delle lunghe barche utilizzate per guadare i tanti laghi formati dai monsoni: più di una volta, su queste costruzioni rozze e artigianali, ho visto ragazzi con motociclette “cromate”. 

A mio parere, ciò che muove verso la “novità occidentale” è il desiderio di chi non ha mai sperimentato. Stanno prendendo i nostri desideri e li stanno facendo loro, ma non senza i nostri problemi. E’ normale – più di una volta ho suggerito loro – che una società si muova verso l’evoluzione, verso un miglioramento delle condizioni materiali, ma questo non può perseguire in modo acritico un modello basato su culture e modi di vita tanto differenti. Sia dal punto di vista umano, della percezione dei tempi, sia dal punto di vista della struttura e del tessuto sociale. 

Cosa senti di aver tratto da questa esperienza? C’è stato, a tuo avviso, un “valore aggiunto” nella scelta di un paese asiatico? 

E’ stata prima di ogni altra cosa un’esperienza umana e mi ha arricchito personalmente. Ho scoperto che individui anche molto diversi da me condividono sempre qualcosa e qualcosa hanno da trasmettere. Le persone che ho conosciuto, pur nella loro semplicità, erano animate dal desiderio di conoscere e di condividere: le mie storie apparivano a loro interessanti proprio perché diverse, legate a un mondo diverso. Ritrovarsi tutti insieme attorno a un fuoco, preparando la carne su una brace di quattro legnetti e una pietra, in una stanza in cui abitava tutta una famiglia: in questa straordinaria semplicità era come se tutta l’essenza del loro quotidiano, della loro vita, fosse lì con me. 

Ne ho guadagnato in duttilità mentale, nella capacità di gestire problemi diversi da quelli che normalmente mi trovo ad affrontare, rispondendo a nuove sfide e cercando nuove soluzioni. Ma  ho dovuto anche far funzionare i rapporti con persone molto diverse da me. Questo mi ha reso più incline all’ascolto e di conseguenza più aperta. Inevitabilmente, in un’esperienza del genere apprendi la tolleranza verso l’altro e la sua diversità: impari a tollerare i limiti altrui come gli altri tollerano i tuoi. E comprendi meglio te stesso, perché affronti i tuoi limiti, valuti in modo critico il tuo affrontare le situazioni, metti in questione i tuoi atteggiamenti, le tue idee, le tue certezze. Il valore aggiunto di un’esperienza del genere in Asia è quindi l’entrare in contatto con una società profondamente diversa: nei costumi, nei valori e nelle tradizioni. Possibilità che in Europa non c’è, perché, sia pure nelle diversità, esiste una cultura più o meno comune. 

Mi sento di consigliarlo a tutti i giovani, perché quando ritorni lo fai con una concezione diversa delle cose, e ti rendi conto di quanto sei fortunato. Ammesso che la nostra ricchezza sia sufficiente per dirsi tali: ho visto tante persone essere felici con poco. Mi sono resa conto che, pur nella diversità delle culture, della storia, dei costumi, condividiamo tutti una umanità di fondo.

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