La precarietà uccide
«Un modello di impresa, fondato su appalti, subappalti e precarietà, è un modello che uccide. Un sistema basato sui tagli dei costi e dei tempi di lavoro che non rispetta i diritti e le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, e va immediatamente cambiato», sono le parole del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a commento dell’ultima strage sul lavoro di Casteldaccia. Una Repubblica fondata sui morti del lavoro, vite a perdere che non lasciano scampo sulla strada da intraprendere.
L’ultima strage
È il 6 maggio 2024, cinque operai morti e uno gravissimo e in coma. È il bilancio dell’ultimo grave incidente sul lavoro avvenuto a Casteldaccia, nel palermitano. Un altro operaio, quello che ha dato l’allarme, risulterà ferito lievemente. L’incidente è avvenuto nell’impianto Amap di sollevamento delle acque reflue sul lungomare di Casteldaccia, accanto alla sede di un’azienda vinicola. Gli operai sono di una ditta esterna che aveva in appalto la manutenzione.
L’Amap aveva affidato la commessa alla “Quadrifoglio Group”, di cui una delle vittime, il settantenne Epifanio Alsazia, era contitolare. C’era da liberare la fognatura da un’ostruzione. Si tratta di un’impresa con 24 dipendenti e un fatturato di un milione di euro, fondata nel 2005 da ex lavoratori dipendenti in pensione. Uno schema classico di esternalizzazione del lavoro attraverso piccole ditte costituite da lavoratori in pensioni o licenziati che, senza alternative, scelgono il lavoro autonomo.
A fianco degli operai esterni coinvolti nell’incidente ce n’erano due assunti con contratti interinali dall’Amap. L’azienda pubblica, non disponendo più delle figure professionali necessarie per il taglio dei fondi e, di conseguenza, del personale, si affida a una società interinale per reclutarli all’occorrenza.
Queste, però, sono spesso senza formazione e competenze che vanno ad affiancare i dipendenti della ditta che vince il subappalto, i cui dipendenti sono, anch’essi, precari. La municipalizzata, infatti, da anni ha ormai esternalizzato alcuni servizi e utilizza operai di ditte private o lavoratori interinali in attesa di terminare le procedure di concorso per nuove assunzioni pendenti dal 2022, che in realtà non avverrà mai.
La dinamica dell’incidente simile a quello di Suviana
A parte i due lavoratori reclutati dall’agenzia interinale per conto di Anac, gli altri erano tutti dipendenti della ditta “Quadrifoglio Group srl” di Partinico, in provincia di Palermo.
La ditta stava lavorando, appunto, su mandato della municipalizzata palermitana Amap che si occupa della gestione idrica in città e in alcuni Comuni della provincia.
Le vittime sono: Epifanio Assazia, 71 anni, contitolare della ditta Quadrifoglio; Giuseppe Miraglia e Roberto Raneri, 50 anni, Ignazio Giordano, 59 anni, Giuseppe La Barbera, appena 28 anni.
I decessi sarebbero avvenuti per le esalazioni tossiche prodotte dalle acque nere. Gli operai sarebbero morti uno dietro l’altro calandosi in un tombino dell’impianto fognario. È questa la prima ricostruzione della strage. Dopo che il primo operaio è rimasto nel sottosuolo senza venir fuori, gli altri si sono calati per capire cosa stesse succedendo. Il settimo componente della squadra, non vedendo uscire i colleghi, ha dato l’allarme. Tra le quattro vittime della “Quadrifoglio” di Partinico figurerebbe anche il titolare della ditta; il quinto è un lavoratore interinale dell’Amap. Verosimilmente, hanno subito tutti un’intossicazione da idrogeno solforato che provoca irritazioni alle vie respiratorie e soffocamento.
La retorica dei controlli sulla sicurezza
Bisogna accertare di chi fosse la responsabilità di controllare il rispetto delle norme di sicurezza. Sono morti intossicati in un ambiente “saturo di gas tossici”. A cominciare dall’utilizzo delle mascherine di protezione. «È una cosa assurda – ha detto il presidente di Amap, Alessandro Di Martino -. L’odore era tale che non è comprensibile come non si siano protetti».
Le cinque vittime hanno respirato una quantità enorme di idrogeno solforato. Ce n’era una concentrazione dieci volte superiore alla soglia di tollerabilità. Non indossavano le mascherine. La cisterna era diventata una camera a gas.
È il comandante dei vigili del fuoco di Palermo, Girolamo Bentivoglio Fiandra, a fornire una prima spiegazione di cosa sia accaduto nell’impianto di sollevamento delle acque reflue a Casteldaccia, concludendo: «Se fossero state prese tutte le precauzioni del caso tutto questo non sarebbe successo».
Gli operai erano al secondo livello dell’impianto. Un sistema di scale li aveva portati giù fino a 5-6 metri di profondità. I Vigili del fuoco hanno trovato tre corpi dentro la vasca di liquami, una cisterna 5 metri per 5 con 80 centimetri di reflui. Una dinamica che ricorda molto la strage nella diga di Suviana di Enel “Green Power”.
Informazione di censura e di servizio
Secondo gli ultimi dati dell’Inail, i morti sul lavoro in Italia nel primo trimestre del 2024 sarebbero stati 191, cinque in meno rispetto alle 196 registrate nel primo trimestre 2023 (-2,6%) e 21 in meno sul 2019, ma 25 in più rispetto al 2020, segnato dalle chiusure legate alla pandemia, sei in più sul 2021 e due in più sul 2022. Sempre nel 2023, sono stati 65 in Sicilia e 16 a Palermo le morti sul lavoro.
Numeri ufficiali che tentano di fornire un’informazione tranquillizzante. Dello stesso tono il comunicato dell’emittente SKY, secondo la quale, negli ultimi trent’anni, le morti sul lavoro sarebbero in lieve calo. Un commento di pura propaganda e senza scrupoli, emesso il giorno dopo la strage di Palermo.
Ma, secondo Piero Santonastaso, ideatore e curatore di “Morti di lavoro”, progetto partito su Facebook, in cui racconta, e dà conto, del fenomeno degli incidenti sul lavoro al di là dei dati ufficiali, la realtà è un’altra: «Con l’incidente in Sicilia arriviamo a 379 morti nel nostro Paese dall’ inizio dell’anno, in pratica in soli 127 giorni. Dati diversi da quelli dell’Inail, che ha atteso il 1° maggio per diffondere quelli del primo trimestre 2024 conteggiando 191 vittime, in calo del 2,6% rispetto al 2023. Eppure, a noi risultavano 260 morti con un aumento del 3% in un anno».
La tragedia di Casteldaccia, in realtà, risponde a uno schema che si è ripetuto troppo spesso in questi mesi, ovvero il taglio dei fondi per la spesa pubblica, da un lato, e l’esternalizzazione selvaggia, dall’altro, che incentivano la creazione di piccole imprese di padroncini costituite da lavoratori in pensione o licenziati
Il tema della sicurezza sul lavoro, non a caso è stato al centro delle mobilitazioni sindacali in occasione delle celebrazioni del Primo Maggio, ma già 24 ore dopo la conta delle vittime aveva ripreso a salire.
Gli incidenti più gravi da inizio anno sono stati quello verificatosi nella diga di Suviana di Enel Green Power, dove hanno peso la vita sette persone e quello nel cantiere Esselunga di Firenze in cui sono morti, lo scorso febbraio, cinque operai.
Tuttavia, il governo tira dritto. Solo pochi giorni prima di quest’ultimo incidente, la Ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, aveva annunciato nuovi fondi e facilitazioni per il lavoro autonomo. Cioè, l’invito a mettersi in proprio e ad agevolare l’esternalizzazione del lavoro con tanto di precarietà e assunzione dei rischi.
La strage infinita
Il 21 febbraio 2024 era morto un operaio edile di 50 anni originario di Campofelice di Roccella, nel palermitano, investito dal crollo del muro di un’abitazione in ristrutturazione. La ditta, per cui l’uomo lavorava, stava eseguendo dei lavori di ristrutturazione di un’immobile in campagna. L’operaio di 50 anni è stato travolto dai blocchi di tufo che si sono sbriciolati.
Solo pochi giorni prima, a Firenze, erano morti 5 operai travolti da una trave di cemento in un cantiere per la realizzazione di un centro commerciale. Alcuni degli operai erano irregolari o addirittura immigrati senza permesso di soggiorno, tre di origine rumena.
Secondo il segretario Landini, questi ultimi casi vanno ad aggiungersi a un elenco infinito che, soprattutto negli ultimi anni, ha assunto le proporzioni di una vera e propria strage di lavoratori, al punto che la media dei morti sul lavoro in Italia sarebbe di tre vittime al giorno.
È evidente che tutte queste morti presuppongono una causa: il disinvestimento nella sicurezza e il codice dei lavori pubblici che ha ripristinato il subappalto a cascata.
Infatti, c’era questo anche alla base delle cause delle morti di quei ferrovieri, costretti a lavorare per stringere i tempi, tra un treno in transito e l’altro, i cui resti umani furono disseminati tra i binari a Brandizzo, dove cinque operai persero la vita alla stazione. Vennero investiti da un treno, la notte del 31 agosto 2023 mentre svolgevano lavori di manutenzione privi delle autorizzazioni necessarie per avviare i lavori per conto di una società esterna e subappaltatrice e che utilizzavano come prassi l’avvistamento visivo e il richiamo a voce per segnalare l’arrivo dei treni in transito.
Era anche questa la causa che aveva posto fine alla vita di Luana D’Orazio, l’operaia di 22 anni risucchiata e stritolata da un orditoio che gli imprenditori avevano manomesso, rimuovendo la sicura. Questo perché bisognava produrre di più, e più rapidamente.
Analoga spiegazione dietro la morte di Laila El Harima, assunta due mesi prima dall’impresa “Bombonette”, nel modenese, destinata all’uso di macchinari ad alto rischio, senza alcuna formazione, morta per una modifica della fustellatrice, sempre per ridurre i tempi di produzione.
Tutte conseguenze della competizione al ribasso nel mercato del lavoro con una domanda enorme a fronte di un’offerta scarsa. Con due risultati classici: condizioni capestro e stipendi da fame.
Gli incidenti sul lavoro fanno più morti della mafia
In modo un po’ provocatorio verrebbe da chiedersi: di fronte a una media di tre morti al giorno, qual è, in concreto, la differenza, qual è la distanza, tra gli esclusi dal lavoro del mondo legale e gli inclusi nel mondo illegale? Tra quei lavoratori nel mercato legale, a queste condizioni di rischio, e coloro che lavorano nel mercato illegale? Forse solo il fatto che, nel mercato illegale si guadagna di più, i rischi sono più chiari e il rischio di morte è inferiore.
Di fatto, gli esclusi e i precari, sia nel mercato del lavoro legale sia in quello del lavoro illegale che, spesso, soprattutto al Sud, si sovrappongono, mettono in gioco una vita che non vale più niente, che è senza margini di tutela e che è priva di piani di riserva.
L’impunità garantita
Come poi sia possibile che, nonostante la continua strage di vittime civili, a cui corrispondono reiterati verdetti di impunità per le imprese, non si verifichi alcuna sollevazione popolare o sindacale che vada oltre le 24 ore dovute, è presto detto: “The show must go on”.
L’inganno mortale: Diventare padrone
L’idea, per esempio, di mettersi in proprio, che alcuni lavoratori a rischio esclusione, o già esclusi, fanno propria, ha origine da presupposti infondati, con una sottovalutazione dei rischi e la sopravalutazione, da parte di costoro, di poter diventare facilmente “padroni”.
Cosicché, poco dopo aver dato vita alla loro ditta individuale, vengono a trovarsi nella situazione di essere pressati dai debiti per il capitale richiesto in prestito (spesso da finanziarie collegate con la società madre da cui dipendevano) e da insostenibili contratti di subappalto. Ovvero, tra la necessità di cercare qualcuno da mandare allo sbaraglio e il rischio di soccombere a debiti e ipoteche.
Quando si raccolgono i cadaveri dei morti sul lavoro, infatti, si omette di dire che questi piccoli imprenditori di se stessi, questi lavoratori autonomi, non avevano avuto altra scelta che assumere su di sé (e sui propri soci/dipendenti) rischi, precarietà e carichi di lavoro insostenibili sotto forma di subappalti. Della serie: “O la va o la spacca”. E, naturalmente, di solito, la spacca.
Perciò, che sia chiaro – perché è anche un dato di fatto – , quegli operai della ditta di manutenzione in regime di subappalto delle ferrovie nel torinese, fondata, appunto, da un ex ferroviere che si era messo in proprio, erano consenzienti. Non erano stati obbligati dalle Ferrovie dello Stato a quella procedura che faceva a meno di ogni criterio di sicurezza per ridurre i tempi di lavoro.
Ma, se l’azienda che aveva avuto quel contratto in subappalto voleva ricavare un reddito con cui poter pagare gli stipendi, doveva evitare di incorrere in penali e sanzioni o, più semplicemente, doveva ridurre al massimo i tempi.
Il cinismo del Governo al servizio delle politiche neoliberiste
Tuttavia, in questo clima di reticenze e di realtà ritagliate su misura, è vietato sollevare troppo il coperchio, infatti la ministra del Lavoro, all’indomani della strage di Brandizzo, aveva ammonito: «Abbassare i toni, non è l’ora delle polemiche”. Cioè, zitti e continuate a fare quello che dovete fare.
Aveva, quindi, continuato la sua conferenza stampa dedicando la riforma del lavoro che stava varando, ancora nel segno della flessibilità, al giuslavorista Marco Biagi, precursore del lavoro a termine e della flessibilità.
Non contenta, solo pochi giorni più tardi, la stessa ministra avrebbe descritto questo scenario di lavori temporanei e precari come «una serie di esperienze che i lavoratori devono essere disposti a fare per garantirsi una condizione sociale sostenibile» .
La via cinese
In realtà, la ragione di questo scenario di lavoro esternalizzato e precario, al di là delle narrazioni suggestive e andando oltre il silenzio assordante sulle continue morti sul lavoro in Italia, è che bisogna contrarre il costo del lavoro variabile sul mercato globale.
Ma si tratta di una prospettiva insostenibile, a meno che non si prefiguri una condizione “cinese” del lavoro. Infatti, le morti sul lavoro sono solo la punta di un iceberg di un diffuso malessere sociale. Un iceberg di lavoro nero e precariato occultato, per esempio, dalla retorica della brillante manifattura italiana e delle piccole aziende, talvolta a conduzione familiare, che lavorano in outsourcing.
Un modello, si dice, tutto italiano, il famoso made in Italy di cui essere fieri. Ma, anche questa storia ha una spiegazione molto meno poetica di come la si vende. Accanto a queste microimprese fasoniste, soprattutto ubicate nel centro Sud, di solito illegali o di sfruttamento intensivo del lavoro, come perfettamente raccontato da Roberto Saviano in “Gomorra”, e che dal basso si mettono al servizio delle multinazionali, ci sono anche piccole imprese, derivate dall’alto. Realtà, prodotte dallo scorporo di pezzi di grandi imprese, da una dinamica di frammentazione della produzione e dei servizi, avviata già negli anni ’90.
In entrambi i casi, all’origine c’è sempre l’esigenza da parte dell’azienda madre o titolare del brand, (nazionale o estera, pubblica o privata) di trasformare parte dei costi fissi, in costi variabili attraverso le esternalizzazioni di attività “non core” e la dismissione di interi parti dell’azienda.
“Vite a perdere” è il titolo di un film italiano del 2004 nel quale si raccontava la drammatica storia di cinque giovani nati e cresciuti in una delle più povere borgate romane che vivevano malamente, rubacchiando e tirando avanti alla meglio con lavori occasionali e in nero.
Sarà forse questa la prospettiva di lavoro e di condizione sociale che ci attende, con l’introduzione dell’intelligenza artificiale, i continui tagli alla sicurezza, il ripristino dei subappalti senza gara fino a 5 milioni di importo e la progressiva riduzione dei diritti?
Se è così, la recente riforma del lavoro dovrebbe contenere questo slogan: “Prendere o lasciare”.