Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

La casa e il tempo: due dimensioni ai tempi del Coronavirus

La casa è il nostro porto sicuro che ci fa entrare in contatto con alcune parti di noi. Impariamo a usare il tempo, che in questi giorni abbiamo in abbondanza, per rileggerci e rileggere chi ci sta vicino

di Gabriella Scaduto

Cos’è per ciascuno di noi la propria casa? Se pensiamo che essa si possa nella sua definizione circoscrivere ad un luogo fisico, un ambiente cioè delimitato da confini strutturali ben definiti, ci stiamo automaticamente limitando a considerarne un solo aspetto. Quello più visibile ai nostri occhi.
Nel suo senso più letterale, una casa è ciò che fornisce riparo. Un luogo coperto che va a proteggere dall’esterno, che pone dunque un confine tra un “dentro” e un “fuori” da noi.

In realtà però quel confine fisico, fatto di mura, è nel contempo un confine psicologico, non percepibile alla vista, tra il proprio mondo interno e quel che c’è fuori da esso e che ha a che fare con “l’altro”. Ne conviene che essa rappresenta sì uno spazio fisico, ma che racchiude significati simbolici ed emozionali, all’interno del quale scorre un tempo che ciascuno di noi può vivere in maniera più o meno attiva.

La casa, il tempo e lo spazio

E mai come oggi, a causa dell’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Corona virus che ha prodotto nella nostra società una forte limitazione dei nostri movimenti, le dimensioni del tempo e dello spazio assumono un significato ancora più pregnante. La casa, con la quale ciascuno sviluppa un legame affettivo e in cui circolano emozioni, atteggiamenti diversi e si vivono le relazioni, diventa oggi, in assenza di una regolare attività lavorativa o scolastica o ancora ricreativa, il nostro unico cosmo. Il nostro rifugio e al tempo stesso la nostra galera dorata. Il “contenitore” fisico ed emotivo dentro il quale ci attraversa un tempo, che è tutta la nostra esistenza e che rispecchia il nostro mondo interno, quello psichico.

Il nostro porto sicuro

Fino a ieri vivevamo nell’economicismo assoluto globalizzante e molto del nostro tempo era dedicato a far circolare, ognuno nel proprio piccolo, l’economia di mercato. Dal dipendente al libero professionista, dall’imprenditore all’agricoltore, dall’artigiano al pescatore. Da quello in regola col Fisco al lavoratore in nero. Tutti, nessuno escluso, coinvolti in un movimento circolare che faceva sì che l’ingranaggio della macchina economica procedesse, seppur tra alti e bassi. La propria casa dunque rappresentava il “porto sicuro” da cui partire per poi fare ritorno. Oggi, ad un mese di distanza dal primo DPCM varato, iniziamo tutti a sentire gli effetti della stagnazione dell’economia. Pagare l’affitto di casa, o le bollette, o peggio ancora fare la spesa, sono diventate in effetti per molti un grave problema da risolvere, ma di cui non ci è dato sapere quale sia la formula per la sua stessa risoluzione.

Il tempo è denaro

Viviamo in un momento di “sospensione” del tempo, laddove quest’ultimo è divenuto sinonimo di denaro. Il detto “il tempo è denaro”, infatti, mai come oggi ci ricorda quanto questo concetto sia diventato nell’ultimo secolo per molti versi una misura della nostra vita, ma non necessariamente della sua qualità. Fino a quando considereremo il tempo una misura, un processo legato alla produzione e allo scambio economico, saremo costretti a trarre da questo drammatico momento storico solo tanta angoscia. Se invece penseremo il tempo anche come vita , ossia come quotidiano rapporto con gli altri, svincolandolo dal concetto di valore economico, riusciremo ad abitare questo tempo come importante opportunità di profonda conoscenza del nostro Sé, cioè di noi stessi. In altre parole, sebbene non si possa vivere d’aria, ossia, se la produttività sia innegabilmente un fattore imprescindibile delle nostre vite che occupava e continuerà ad occupare un posto fondamentale nella nostra esistenza, dobbiamo comprendere il fatto che la dimensione del tempo non deve e non può esaurirsi solo a questo.

Oggi, infatti, nel silenzio delle nostre abitazioni potremo rendere udibili per la prima volta ciò che i rumori della normalità, antecedenti all’emergenza sanitaria, sovrastavano prepotentemente: le voci più profonde della nostra mente. Come in un film muto vediamo gli attori dialogare, ma non possiamo accedere ai contenuti delle loro conversazioni. Allo stesso modo prima che iniziasse la nostra clausura, travolti e risucchiati da uno stile di vita spesso frenetico e colmo di cose materiali da fare, percepivamo dentro di noi voci confuse, a volte urla disperate, frutto di un malessere interiore di cui tuttavia non ne comprendevamo il senso, la causa e l’origine. Adesso abbiamo invece la possibilità di “ripristinare l’audio” e ascoltarci in profondità, come forse non abbiamo fatto mai prima d’ora.

L’importanza dell’ascolto

Poter far questo non significherà ritrovarci in un campo pericoloso come spesso si teme, ma entrare maggiormente in contatto con alcune parti di noi che non avevamo mai veramente conosciuto e che possono invece fornirci le giuste risorse per gestire l’ansia e l’angoscia di questo momento. E ciò, affrontando in modo migliore dentro casa nostra quel tempo in cui dovremo attendere il ritorno alla normalità. Nello stesso modo, avremo la possibilità di cogliere in chi ci sta accanto e condivide con noi le mura domestiche, aspetti e sfumature che ci potrebbero consentire una rilettura dell’altro, il familiare appunto, rivalutandolo e rendendo la convivenza più facile, partendo dal presupposto che a combattere questo fantasma si può essere in due, in tre o in quattro, anzichè da soli.

La casa è la parte più profonda di noi?

Alla luce di ciò, possiamo scegliere di re-imparare ad abitare la casa se vorremo imparare ad abitare anche la parte più profonda di noi. Ciò ci consentirà di donare qualità al nostro tempo, che prima ne era carente nonostante le comodità materiali, e di guardare a noi e agli altri, dentro e fuori da casa nostra, come parte di una Comunità, che ha un senso di appartenenza. Ma che ci dà la possibilità di condividere l’aspetto traumatico di quanto stiamo vivendo rendendolo meno doloroso, e al contempo di nutrire una speranza collettiva che quanto si è rivelato più grande di noi, si esaurisca prima possibile.
Dr.ssa Gabriella Scaduto, psicologa e psicoterapeuta a Palermo

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